Paul Gonsalves

by Stanley Dance[1]

“Paul Gonsalves è un musicista meraviglioso”, ha detto Duke Ellington. “Altamente qualificato, con un’enorme immaginazione, è in grado di dare forma a qualsiasi cosa gli venga in mente. Questo è raro, naturalmente, e va ben oltre quello che si trovava nel jazz degli albori. A quei tempi, i ragazzi non potevano proporre tutte le idee che gli venivano in mente. Dovevano essere intelligenti e pieni di risorse, e limitare le loro esibizioni a quando avevano piena autorità. Paul non deve preoccuparsi di limitazioni di questo tipo”.

 “Anche quando ora faccio un assolo” dice Paul Gonsalves “posso tornare ad alcune cose che suonavo da ragazzino”.
 I genitori di Gonsalves erano originari di Capo Verde e suo padre insegnò a lui e ai suoi due fratelli a suonare la chitarra. Impararono a suonare la musica delle danze popolari portoghesi ed appresero gli stili hillbilly e Hawaiian dalla radio e dai dischi. Nei fine settimana, amici e parenti della famiglia passavano a visitarli e i ragazzi dovevano rimanere a casa per intrattenere gli ospiti. Questo interferiva pesantemente con le attività sportive di Gonsalves e il trio divenne un lavoro di routine. “Ho accumulato questa cosa dentro di me finché sono arrivato ad odiare la musica”, ha ricordato, “specialmente quella monotona che spesso dovevamo suonare”.
 Fortunatamente, il fratello maggiore, Joseph, aveva un’intuizione per il jazz e Gonsalves ricorda come entrambi fossero attratti da un disco di Ellington che un deejay usava come tema la mattina presto, quando Joseph si vestiva per andare al lavoro. La sera ascoltavano anche le trasmissioni di band dal vivo e il sabato Joseph spendeva sempre parte del suo stipendio in dischi di Ellington, Henderson e Lunceford. Gonsalves ebbe modo di riconoscere tutti i grandi solisti di quell’epoca, ma cominciò più che altro ad interessarsi a suonare quando, a sedici anni, Joseph lo portò a uno spettacolo di mezzanotte al teatro della RKO di Providence.
 “La sensazione che mi prese quando il film terminò, tutte le luci si spensero, le tende si aprirono e vidi la band di Jimmie Lunceford… Cavolo! Naturalmente conoscevo tutti i loro dischi, conoscevo tutti gli assoli di Willie Smith e mi piaceva la band accanto a quella di Duke. Quando tornai a casa quella sera ero così entusiasta che decisi che da quel momento in poi avrei suonato il sassofono. Così tormentai mio padre finché non uscì e me ne comprò uno, un tenore da cinquanta dollari piuttosto malridotto, ma pur sempre un sassofono”.
 “Coleman Hawkins è stato la mia principale influenza. C’era qualcosa nella sua musica che coincideva con quella di Duke, che per me denotava classe. Oltre alla sua abilità di musicista, c’era qualcosa di personale in lui: il modo in cui teneva lo strumento, il modo in cui si vestiva. Lo chiamavo “il Duke Ellington del sassofono”. Il suo stile sembrava più musicale di quello degli altri tenori, una sorta di modo classico di suonare. Ammiravo Lester Young, ma Coleman Hawkins era quello giusto per me”.
 “Quando mi diplomai nel 1938, finalmente abbandonammo il trio. Volevo diventare un grafico pubblicitario ed ebbi la possibilità di ottenere una borsa di studio per una delle migliori scuole di grafica pubblicitaria del paese, la Rhode Island School of Design, ma ero diventato abbastanza bravo a suonare sia il sax che la chitarra e trovai un lavoro a Providence. Fu il mio primo lavoro professionale, in smoking, a suonare dalle cinque del pomeriggio all’una di notte. Feci colpo sui musicisti locali e questo accrebbe il mio ego”.
 Gonsalves ebbe la fortuna di trovare un tutor che aveva insegnato al conservatorio di Boston e che si interessò veramente a lui. Non guardava dall’alto in basso il jazz e fu una tale fonte di ispirazione che Gonsalves si esercitava diligentemente: “otto ore al giorno, quattro al mattino e quattro al pomeriggio”. Dopo tre anni la sua competenza tecnica comprendeva tutto ciò che il suo insegnante gli aveva potuto impartire, ma su consiglio di quest’ultimo studiò clarinetto per un altro anno. (Molti anni dopo, in Canada, prese il clarinetto di Harry Carney e suonò alcuni arpeggi. Ellington uscì subito dal camerino. “Chi è che suona il clarinetto?”, volle sapere. Gonsalves aveva modellato il suo stile su quello di Barney Bigard).
 Anche se non studiò l’armonia e la teoria come suggerito dal suo insegnante, Gonsalves scoprì che il suo background di chitarrista gli era di grande aiuto quando si trattava di affrontare le nuove progressioni di accordi. “Ho sempre avuto la tendenza a suonare molte note, perché avevo molta abilità tecnica. I musicisti dicevano: “Perché non suonare in modo meno complicato?” Ma io ho sempre pensato di dover suonare il più possibile e questo, si può dire, ha plasmato il mio stile. Anche se sono stato influenzato da alcuni grandi musicisti, oggi sento di aver dedicato allo strumento abbastanza tempo e studio da poter iniettare i miei sentimenti in ciò che suono.
 “Il mio maestro mi insegnò che, poiché il jazz è in gran parte improvvisato, è possibile prendere da tutti i tipi di musica. Mi incoraggiò ad ascoltare e ad ampliare il mio raggio d’azione, e ho scoperto che questo è vero. Molte delle citazioni divertenti e dei riferimenti nel jazz derivano da esperienze musicali diverse, come quella di far parte di una piccola band da palcoscenico. È possibile ascoltare i riferimenti classici nei dischi di Louis, Bird e Dizzy. Quando un musicista jazz si alza per suonare un chorus, per raccontare una storia, tutte queste idee sono nella sua mente e possono saltare fuori in qualsiasi momento. La vera arte sta nel come utilizzarle”.
 La prima esperienza di Gonsalves in una band fu in un gruppo di otto elementi a Providence, guidato da Henry McCoy e chiamato Jitterbugs. Quando il gruppo si sciolse, si unì a Phil Edmonds a New Bedford.
 “Fu allora che scoprii le difficoltà che si incontrano quando si è lontani da casa”, ha raccontato, “ma queste esperienze ti arricchiscono nel suonare. Quello che si doveva aggiungere alla musica, dopo aver studiato tutti quei libri, era qualcosa che dovevi vivere. Eravamo un gruppo di ragazzi giovani e se il giorno dopo non avevamo niente da mangiare lo consideravamo parte del gioco. Sono felice di aver fatto quelle esperienze. C’erano così tante opportunità a quei tempi, anche se la paga era di soli tre dollari a notte. C’erano posti per suonare, posti per fare jam e posti, per così dire, per andare a scuola. Si poteva trovare un lavoro in cui si dovevano accompagnare spettacoli di vaudeville, e anche quella era un’esperienza. L’opportunità di suonare era importante. I musicisti suonavano senza badare ai soldi, dopodiché andavano da qualche altra parte a fare le jam. Anche le big band erano scuole, e ogni piccola città o località ne aveva. Nei dintorni di Boston ci saranno state venti band di quattordici o quindici elementi. I colleghi facevano le prove per niente e la conversazione in quelle prove era molto incentrata sugli assoli di artisti famosi nei dischi. Oggi c’è così tanto stress per conformarsi al business che è diventato tutto più preconfezionato. Quei tempi non si ripeteranno”.
 Fin dal momento in cui lasciò la scuola superiore, Gonsalves scoprì di potersi guadagnare da vivere con la musica. Fu nell’esercito dal 1942 al 1945. Quando tornò dall’India, si unì a Sabby Lewis e la sua fama cominciò a diffondersi. I musicisti in visita passavano parola sul “giovane tenorista del Savoy di Boston”. Alla fine, quando Jacquet partì, ricevette una telefonata da Count Basie, e lo raggiunse al Royal Theatre di Baltimora. Fece crollare il teatro suonando Mutton Leg di Jacquet.
 Dopo quattro anni con Basie, tornò per un po’ da Sabby Lewis. Poi lo chiamò Dizzy Gillespie. “Mi sono interrogato su di me, perché non mi consideravo un artista “moderno”, ma se Dizzy vedeva qualcosa nel mio modo di suonare… beh, forse dovevo andare”. Ci rimase fino a quando la band si sciolse (“era una delle migliori che Dizzy avesse mai avuto”) e poi partì per New York con i suoi risparmi.

Addis Abeba
John Coltrane, Jimmy Heath e Paul Gonsalves nell’orchestra di Dizzy Gillespie

“Non sapevo se ce l’avrei fatta nella Grande Città. Pensavo che sarei morto di fame, come un artista in una soffitta. Ma in realtà successe che avevo qualcosa da fare di fico ogni giorno. Andavo in quel posto sulla 110ma strada e facevo jam, e Charlie Parker veniva lì, e magari di giorno Gene Ammons, Charlie e io uscivamo in barca a remi.
 “Settembre era arrivato e cominciava a fare un po’ freddo e decisi di trovarmi un lavoro. Una mattina mi svegliai con soli sette dollari e venti centesimi. Non riuscivo a dormire e per tutto il giorno qualcosa continuava a dirmi di alzarmi, vestirmi e andare al Birdland. Si fecero le undici di sera prima che mi decisi a farlo. C’era una folla intorno al tavolo dove era seduto Duke. Quando si alzò per andarsene, avevo già bevuto un po’. Di solito sono timido, ma ora avevo abbastanza coraggio per dirlo:
 «Ciao, Duke, come stai?»
 «Di’, tu non sei Paul Gonsalves?»
 «Sì»
 «Ehi, tesoro, ti stavo cercando. Perché non vieni in ufficio domani?»
 “Il risultato fu che mi chiese di fare una serie di date con la band. Segretamente, pensavo: “Ho questo lavoro, perché conosco tutti gli assoli di Ben Webster dai dischi”. La prima cosa che Duke suonò fu C Jam Blues, e poi Settin’ and a-Rockin’. Così gli chiesi se aveva ancora Chelsea Bridge, e mentre mi alzai per suonare il mio assolo lo sentii dire a Quentin Jackson:
 «Questo tizio suona proprio come Ben [Webster]!»
 “Così ottenni l’ingaggio.

 “Se domani dovessi morire, riterrei di aver avuto successo perché quando iniziai a studiare musica era con l’idea di far parte di quella band. In questi dieci anni ho cercato di mantenere un suono che si adattasse ad essa. Il mio insegnante diceva che, pur dovendo avere una buona tecnica per facilitare le proprie idee, bisognava cercare soprattutto di avere un buon timbro. Ecco perché ho sempre ammirato Coleman Hawkins, Don Byas e Ben Webster e perché, quando suonavo anche l’alto con Sabby Lewis, ho sempre cercato di suonare come Johnny Hodges.
 “Quando Charlie Parker e i modernisti irruppero nella scena, un certo suono dritto[2] divenne una necessità, e non solo per suonare velocemente. Con le armonie più ravvicinate che si sono create con il concetto moderno di jazz, lo stile di suonare con un vibrato molto ampio doveva sparire o la musica avrebbe suonato stonata. Credo che la musica riflettesse i tempi. C’era più tensione, velocità, nevrosi. Il jazz era stato stereotipato e ricordo di essermi annoiato mentre ero nella band di Basie. Cambiamenti del genere non avvengono solo nella musica. L’importanza dell’arte è il modo in cui influisce sulle cose pratiche. Non abbiamo i soldi per comprare un Picasso, ma le sue opere possono influenzare le linee, ad esempio, di una lampada. Le linee derivano da quei dipinti e oggi si può vedere la bellezza nelle cose che dieci anni fa non si poteva vedere. Forse questo spiega perché mi piaceva tanto il jazz, lo preferivo alla musica classica. C’era una certa libertà e potevo interpretare le mie idee.
 “Ora, si può forse nominare una band che esegue performance più precise e costanti, ma nessuna che suona musica così complicata e non ortodossa come quella che scrive Duke. Sta ancora progredendo. Alcuni compagni non sempre capiscono alcune delle cose che porta oggi nella band. Pensano che siano un po’ troppo avanzate e dicono: “Cosa sta cercando di fare? Ma Duke sa che la sua band è composta da quindici musicisti e sa anche che sono esseri umani. È pronto a far sì che le esibizioni varino, a seconda di come si sentono i ragazzi e a seconda di quello che riesce a tirare fuori da loro. Una sera potremmo fare schifo, ma la sera dopo potremmo suonare benissimo. Quando c’è quella fusione tra ragazzi che hanno voglia di suonare, quando tutto va per il verso giusto e stiamo suonando la musica nel modo in cui dovrebbe essere suonata, allora è la più grande band che ci sia. Ho sentito Duke dire a qualcuno: “Non puoi stare alla guida di una band di questo tipo con una frusta e aspettarti di ricavarne musica”. Una volta ho lavorato per un paio di settimane con Tommy Dorsey[3], e Tommy era un ragazzo meraviglioso, ma non c’era alcun feeling e musicalmente era penoso[4].
 “La vera storia del successo di Diminuendo e Crescendo in Blue è rilevante, credo. Ci fu una grande controversia tra i musicisti di New York quando andammo al Birdland su cosa avremmo fatto in un posto prevalentemente ‘moderno’. Dicevano: “La band di Duke morirà lì dentro”, ma all’epoca swingavamo di brutto. Di punto in bianco, Duke disse: “Tira fuori 107, 108”. Non l’avevo mai suonata, anche se avevo il disco originale a casa. Quella volta in particolare, quando finirono di suonare la prima parte, mi avvicinai a lui e gli dissi:
 «Lasciami suonare qualche giro qui»
 «Vai!», rispose.
 “Non so quanti chorus suonai, ma so che provocò una certa eccitazione. La gente era in piedi sulle sedie. Non la suonammo più fino a quella volta a Newport. Ci stavamo preparando per andare in scena quando Duke mi chiamò dietro le quinte.
 «Paul, ti ricordi quel pezzo che abbiamo suonato al Birdland – 107, 108?»
 «Sì», risposi.
 «Ecco cosa voglio che suoni stasera. Quando avremo finito la prima parte, scenderai in campo e suonerai per tutto il tempo che vorrai»

 “Quando uscì il disco, sulla copertina c’erano molte cose su Jo Jones che ritenevo molto sbagliate. È successo che quella sera c’era un vero sentimento di competizione nella band, e salimmo sul palco per suonare al meglio che potevamo. Dopo tutti i piccoli gruppi, l’impatto di una big band è ciò che si desidera per il finale di un festival. Paul Desmond mi disse poco dopo: “Quello che tu e la band avete suonato è stata la dichiarazione più onesta di quella sera”.
 “Naturalmente, pensai di aver suonato solo un paio di minuti. Non ho mai cercato di memorizzare il disco. Non ce l’ho nemmeno a casa e non l’ho mai ascoltato. È diventato sempre più difficile farlo, sera dopo sera, perché la gente si aspetta che io suoni a lungo. La durata è determinata dal modo in cui la sezione ritmica lavora e da come tutto si costruisce. Il climax può arrivare dopo dieci o cinque chorus, ma se si va oltre si distrugge tutto. Una sera a Des Moines, in Iowa, un ragazzo davanti allo stand mi fece arrabbiare.
 «Mm, tu, Paul Gonsalves… non credo che possa suonare così a lungo come nel disco», disse.
 «Così suonai sessantasei chorus. Alcune sere lo suono e le idee arrivano, ma altre volte non arrivano»”.
 Come Ellington e Johnny Hodges si premurano di sottolineare, tuttavia, Gonsalves dà il meglio di sé nelle ballad e nei brani di atmosfera lenta. Lo si sente spesso in una versione ricca e rapsodica di In a Sentimental Mood con la band, e ha registrato versioni attraenti di brani di Hodges, come Warm Valley e Day Dream, così come The Midnight Sun Never Sets di Quincy Jones. Sui pezzi a tempo veloce soddisfa la concezione pubblica del tenore frenetico e trascinatore, ma dietro l’immagine sacrificale rimane uno dei solisti più eccitanti del settore. Si spera che la sua simpatia per l’elemento “moderno” sia stata resa evidente in questa occasione. Tuttavia, il suo gusto per il jazz è estremamente ampio, anche se criticamente selettivo. Quando la band suonava allo Storyville di Boston, insisteva, durante gli intervalli, per accompagnare i suoi amici al piano di sotto ad ascoltare Memphis Slim e Willie Dixon. “Questo è autentico”, diceva, intendendo che all’interno del loro idioma si trattava di artisti autentici.
 Mentre Duke Ellington era in Francia per lavorare al film Paris Blues, Gonsalves, come altri membri della band, trascorse gran parte delle sue vacanze negli studi di registrazione. Registrò con John Lewis, con Nat Adderley, con un gruppo di percussioni e con Booty Wood. Alla guida di un gruppo che comprendeva Sir Charles Thompson, Ray Nance, Harold Ashby, Aaron Bell e Jo Jones in due sessioni, non solo suonò il tenore, ma anche la chitarra, per la prima volta su disco.
 “Chi ti ricorda?”, chiese sorridendo. “Teddy Bunn?”

[1961]

____________________________


[1] Intervista tratta da Stanley Dance, The World of Duke Ellington, 1970, DaCapo Press.
[2] straight tone nel testo originale [N.d.T.].
[3] fu nel febbraio del 1953 e venne sostituito da Tony Scott [N.d.R.].
[4] Miserable nel testo originale [N.d.T.].
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