Sam Woodyard, batterista dell’orchestra di Duke Ellington, nacque a Elizabeth, New Jersey, il 7 gennaio 1925 e morì a Parigi, il 20 settembre 1988. Nel 1965 rilasciò questa bella intervista a Stanley Dance (amico e biografo di Ellington)[1], qui di seguito tradotta:
“La sera prima di entrare nella band di Ellington nel 1955″””, racconta Sam Woodyard, “Max Roach e io andammo in un locale di Philadelphia dove suonava Count Basie. Bill Graham era allora nella band, mi prese e lui, Basie, Freddie Green, Marshall Royal, Eddie Jones, Max e io andammo in una stanza di un hotel dietro l’angolo dove alloggiavano alcuni di loro. Restammo svegli tutta la notte.
“Ero spaventato, pensando che nella band di Duke ci sarebbe stata uno spartito della batteria da paura. Come avrei fatto a leggerlo a prima vista? Non ero mai stato da un insegnante di batteria in vita mia. Tutto quello che avevo imparato era stato da persone che avevano fiducia in me e che si erano sedute e mi avevano mostrato le cose. Ora, tutti noi stavamo bevendo whisky e quei cats si stavano dando alla pazza gioia, ma io ero così spaventato che ero sobrio.
— “Al diavolo”, mi dissero, cercando di tranquillizzarmi, “vai lì e swinga!”.
— “Beh, non ne sono sicuro…”.
— “Vai lì e ascolta, e suona come hai fatto finora”.
“Il giorno dopo Milt Buckner mi accompagnò fino a New York con la batteria e salì con me alle prove negli studi di Nola. Jimmy Woode, il bassista, arrivò mentre stavo preparando e mi disse: “Ehi, baby, sono contento di averti nella band!”. Gli dissi come mi sentivo e lui mi rispose: “Lascia perdere. Tutti si sentono così il primo giorno”. Ed è quello che ho detto a molti nuovi arrivati nella band da allora.
“Quando mi guardai intorno, Max Roach era seduto lì, ma era comunque dalla mia parte. C’erano anche Art Blakey e Shadow Wilson. Anche se erano miei amici, questo non mi rese le cose più facili”.
“Il primo pezzo che Duke chiamò fu Harlem Airshaft. Non lo sapevo, ma capii subito dove andava a parare il brano, e Clark Terry si chinò e disse: “Ho capito” e mi disse le cose man mano che andavamo avanti. Quando finimmo il pezzo, Duke si avvicinò alla band e disse,
— “Signori, conoscete Sam Woodyard?”.
— “Sì, l’ho conosciuto”, disse Paul Gonsalves. Si girò con un sorriso che era il suo modo per dire che avevo swingato abbastanza. E questo mi fece sentire meglio.

“Dopo aver suonato un po’ di cose, Duke chiamò qualcosa che non suonavano da sei mesi. La band aveva fatto un acquashow per tutta l’estate e Johnny Hodges si era riunito alla band proprio quel giorno. “Guardate qui”, disse Clark Terry. “Avevo pensato che tutti sapessero cosa fare tranne me, ma ora scoprivo chi stava suonando o no la sua parte.
La prima sera con la band, Duke mi chiese: “Quanto conosci Skin Deep?”. Non lo conoscevo bene e il tipo di assoli che avevo fatto con Milt Buckner erano molto liberi. Ero preoccupato di trascinare Duke e i cats e credo che la mia performance fosse piuttosto strana, ma Clark mi incoraggiò di nuovo. “Sai, anche noi stiamo litigando”, mi disse, “e domani sarai a trecento miglia da qui”. Mi insegnò l’intero repertorio in circa una settimana, e aveva un ottimo modo di insegnare senza urlare e senza metterti in imbarazzo, in modo che la gente davanti non pensasse: “Beh, hanno un nuovo batterista”. Indicava le cose con la mano, o diceva: “Hai quattro battute alla fine del ritornello” e così via. Era seduto in fondo alla sezione delle trombe, accanto a me.
“Clark, Paul, Jimmy Woode e Willie Cook furono dalla mia parte fin dall’inizio, ma anche quelli che non parlavano si avvicinarono presto, e avemmo avuto un piccolo assaggio, e mi dissero che avrebbero voluto che suonassi in questo o quell’altro modo dietro di loro, e così ci siamo riuniti tutti. Si sono accorti che volevo suonare per il gruppo e che per me non faceva alcuna differenza se era con le bacchette, con le spazzole o con le mani. Non ha senso che tu costruisca una casa e io un garage se non siamo nella stessa proprietà”.
Sam Woodyard è nato a Elizabeth, nel New Jersey, il 7 gennaio 1925. Sua madre ricorda che da piccolo era solito battere i ritmi sulle sedie e sui mobili di casa. Suo padre suonava la batteria nei fine settimana e fu così che anche suo figlio entrò in scena.
“Volevo entrare nelle bande scolastiche”, ha ricordato Woodyard, “ma non mi lasciavano entrare. Avevano un’orchestra da ballo e una band che suonava per quella che chiamavano ‘Assemblea’. Avrei potuto entrare proprio quando lasciai la scuola, il giorno del mio sedicesimo compleanno, ma allora volevo aiutare mia madre, e una volta che vai avanti e lo fai non puoi più tornare indietro”. Da un giorno all’altro, a una settimana, a un mese, a un anno, a un altro anno, a un altro anno ancora…
“Quando lasciai la scuola, trovai un lavoro diurno e suonavo il sabato sera, a volte con una matinée. Poi fui fortunato e lavorai con un trio tre sere a settimana, usando le spazzole. Questa è stata una delle cose positive che ho imparato presto. Alla maggior parte dei batteristi non piace suonare con le spazzole. Quasi tutti i trii di allora erano composti da sassofono, pianoforte e batteria, quindi in termini di tempo tutto dipendeva dal batterista. Il boom-boom della cassa era importante, ma poteva diventare piuttosto misterioso, perché allora non avevo le qualifiche per ottenere un buon suono complessivo.

“Il primo nome davvero promettente con cui ho lavorato è stato Milt Buckner, nel suo trio con l’organo. Lo incontrai al Pep’s Bar and Grillc di Philadelphia nel 1953. Ero andato lì con un sassofonista del Jersey di nome Joe Holiday e i due gruppi lavoravano dietro il grande bar, uno per ogni estremità. Quando Milt stava per partire per il Band Box di New York, un locale vicino al Birdland che ora si chiama International, mi chiese se fossi interessato a raggiungerlo. “Benissimo”, risposi, “sono con te!””.
Woodyard rimase con lui due anni e mezzo. All’inizio il gruppo comprendeva il chitarrista Ernest Williams, ma in seguito Danny Turner, il sassofonista contralto, prese il suo posto. Guardando la sua successiva carriera, il periodo con questo trio fu di inestimabile valore per Woodyard. Sebbene un gruppo del New Jersey chiamato Barons of Rhythm lo avesse ispirato da ragazzo – ne facevano parte sia Bobby Plater che Ike Quebec – non aveva alcuna esperienza con le big band, a parte qualche occasionale concerto nei fine settimana. L’esperienza migliore fu suonare con Milt Buckner, perché era molto simile a quella di una big band.
“Alcuni organisti suonano in horn stile, ma Milt suonava con uno stile a mani chiuse e con tutti gli ‘strumenti’ che riusciva a far suonare”, racconta Woodyard. “Quando andavo ad Atlantic City con lui, Wild Bill Davis era dietro l’angolo e aveva Chris Columbus alla batteria. Chris mi prese sotto la sua ala. Scendevamo alle quattro, ma spesso suonavano molto più tardi. Tra un set e l’altro, andavo ad ascoltarlo e magari mi sedevo nel suo camerino, e a volte veniva al mio posto e si sedeva alla batteria. Ha dimenticato più di quanto la maggior parte dei batteristi saprà mai e mi ha mostrato molte cose, soprattutto sul suonare con l’organo. Devi ascoltare i suoni che ritornano, perché è una cosa elettronica. Quando l’organista suona il basso, si sente il suono del suo piede che colpisce il pedale, quindi bisogna più o meno inserirsi tra i beat. Poi bisogna essere costanti, perché la sua gamba si stanca dopo circa un’ora e il tempo può iniziare a calare un po’.
“Suonare con l’organo è davvero una cosa a sé stante, e molti batteristi lo trovano impossibile. Alcuni organisti aggirano la difficoltà registrando con un bassista, perché il basso dell’organo è difficile da prendere correttamente. Da quello che mi hanno detto Wild Bill Davis, Bill Doggett e Milt, la cosa che più si avvicina al vero suono del basso è suonare le stesse note con la mano sinistra e con il piede sinistro. Non si poteva usare un bassista di persona, perché non lo si sarebbe mai sentito. Ho rotto più pelli di cassa nel periodo in cui sono stato con Milt che in tutto il tempo in cui sono stato con Duke Ellington, perché devi suonare con una tale potenza con l’organo. Loro hanno quel pedale del volume e quando sono a metà della corsa vedi la punta abbassarsi – e puoi aspettare che si alzi! E poi hanno quegli altoparlanti sparsi per tutto il locale, e il suono si alza sempre verso l’una o le due di notte, e tu devi andare forte con l’uomo. In alcune di queste stanze intime, si possono vedere le bottiglie e i bicchieri che tremano sugli scaffali. Le persone assorbono parte del suono quando la stanza è affollata, ma se si apre la porta si può sentire a un isolato di distanza.
“Milt Buckner era una persona meravigliosa per cui lavorare e aveva un cuore grande come il mondo. Quando andavi al lavoro, tutto quello che avevi dentro lo davi, anche quando ti sentivi in colpa. Era entusiasta e stimolante, sia sul palco che fuori, e non sapevi mai cosa sarebbe successo da un giorno all’altro. Anche gli errori che facevi erano diversi! Suonavamo con ingaggi da una o due settimane a Philadelphia, Cleveland, Detroit, Toledo e nel South Side di Chicago. Prima di stare con Milt, stavo con Paul Gayten, e facevamo sempre la strada del sud, con lo shuffle e il backbeat. Quindi non era una novità per me quando sono venuto a fare cose come Asphalt Jungle con Duke.
“È strano come il ritmo shuffle stimoli la gente, e io ci aggiungo un po’ di bounce. Chris Columbus lo faceva al Club Harlem e saltava su e giù – tutto a tempo – su un sellino di bicicletta che aveva. La gente cercava di avvicinarsi a lui e restava a guardarlo fino alle nove o dieci del mattino, e quando usciva il sole splendeva.
“La batteria può essere molto emozionante. La gente si sentiva come in una lotta al suono della batteria. I tamburi li facevano sentire come se stessero combattendo. Dopo un po’ puntavano i cannoni in una certa direzione, liberavano tutti, gridavano “Carica!” e andavano verso quel muro o qualsiasi cosa si frapponesse.
“Ora, quando suono il mio assolo di batteria, la band se ne va e mi lascia. Se nel corso dell’assolo c’erano dei riff della band, ciò mi metteva in una specie di morsa e dovevo suonare tutti i segnali per farli rientrare. Questo significherebbe raccontare la stessa storia del venerdì che hai raccontato il lunedì. E la band che se ne va è una specie di espediente commerciale, come quando Duke presenta il suo “primo percussionista” e io mi guardo intorno come se stesse per far entrare un altro batterista. Questo fa arrabbiare un po’ di persone. Potrei starmene seduto lì con la faccia di pietra, ma in questo modo mi riscaldo di più. Ci sono molte persone che iniziano a correre verso i bagni degli uomini e delle donne. È molto scoraggiante vedere la gente che si alza e se ne va, anche se so che ci sono altri che considerano l’assolo di batteria come il momento culminante. Non so mai cosa farò. Quello che suono stasera sui tom lo suonerò domani sera sul rullante e la sera dopo sui piatti. Quando mi viene in mente qualcosa che penso si integri con quello che la band sta facendo, lo tengo. Cerco davvero di pensare prima alla band, e a volte quando arriva il momento del mio assolo non ho davvero l’energia per suonarlo. Non si tratta sempre di stanchezza fisica, ma emotiva, perché riesco a divertirmi anche quando la band suona una ballad.

“Non sono mai stato in grado di leggere velocemente, ma non c’è mai più di quanto si possa ricavare da uno spartito. Devi uscire e farlo qualche volta. Ho un orecchio veloce e se sento una cosa una volta la suonerò la seconda volta, non mi importa cosa sia. Un insegnante può dire: “Ora sei qualificato per suonare”, ma quando entri in una band, il tempo cala e il leader dice: “Qual è il tuo problema? Suona e basta! Sei un batterista. Ascolta e continua a suonare”. E tu non riesci a farlo. Quello che ti ha insegnato l’insegnante era una procedura corretta, ma cosa significa ‘corretta’ in una situazione come quella?
“Oggi non ci sono molte opportunità per i giovani batteristi di fare esperienza nel sostenere il peso di una band come quella di Duke Ellington. Ci si siede dietro la batteria, si guarda intorno al palco e ci sono quei quattordici musicisti, ed è un peso musicale enorme. Ognuno batte il piede e pensa bene, ma in realtà ci sono quattordici tempi diversi, perché ognuno ha il suo modo di battere il piede. Uno è un po’ indietro rispetto al ritmo e un altro ci sta sopra. Sarebbe facile farsi influenzare, ma non ci si può permettere di farlo. Bisogna anche pensare in termini di sezioni e di schema generale. Mantenere l’insieme, oltre a compiacere il bandleader, significa spesso sacrificare se stessi.
“Ho avuto la possibilità di suonare con la band di Basie una sera in cui eravamo in congedo. Anche questo mi spaventava, visto che ero stato con la band di Duke. Si potrebbe pensare che sia il contrario, per il tipo di arrangiamenti e il modo in cui suoniamo in questa band, ma non volevo essere un peso e poi era da tanto che non suonavo con un chitarrista. Quando salii sul palco, sentii subito la differenza tra le quattro ritmiche e le nostre tre, spesso due quando Duke dirige. Non conoscevo gli arrangiamenti, ma Freddie Green era seduto proprio di fronte alla cassa e Thad Jones era alla mia sinistra, e tra loro due mi davano le indicazioni, proprio come faceva Clark Terry.
“Quando hai uno come Freddie Green nella sezione, non ci sono problemi, perché ascolta e non è mai rigido. Davanti, forse non lo senti sempre, ma lo senti. I musicisti sicuramente lo sentono. Con un chitarrista come lui, potrei suonare Diminuendo e Crescendo in Blue con le spazzole invece che con le bacchette e ottenere lo stesso fuoco dietro Paul Gonsalves. Questo è il tipo di persona che Freddie è, e questo è il tipo di cose che colpiscono le persone senza che se ne rendano conto. A volte suoniamo Diminuendo e non decolla. Forse abbiamo viaggiato in autobus tutto il giorno e i ragazzi sono stanchi. Non si può suonare ogni sera come facevamo nel 1956. È difficile anche per Paul, perché deve suonare per soddisfare il pubblico e sé stesso. Naturalmente, ci sono dei piccoli segni di identificazione personale che conservi, perché ti piace sentirli da solo. Ma essendo liberi, si può cambiare idea o seguire una strada diversa, solo per vedere cosa succede. Quando abbiamo fatto il disco, era solo la terza volta che lo suonavo, o meglio i numeri 107 e 108 del libro. In quell’occasione, come disse Duke al microfono, si interpose tra essi un ‘wailing interval di Paul Gonsalves’. Poiché non lo conoscevo, nel disco ci sono alcune pause davvero brutte e un lavoro approssimativo, ma un noto critico mi fece un’ottima recensione. Chi può sapere meglio di me se mi sbagliavo o meno? Piuttosto strano!
“Nessuno è perfetto. Per me, chiunque possa stare seduto, in piedi, appoggiato a un muro o appeso per le dita dei piedi e dire di essere perfetto è un dannato bugiardo. Poiché l’uomo l’ha costruito, anche un metronomo non è perfetto. In una sezione ritmica, è tutta una questione di ascolto. Il tempo varia per molte ragioni. Forse è la stanchezza. Può calare per disinteresse o salire per entusiasmo. A volte il tempo non cambia, ma cambia il colore della melodia. Può accadere che si infiammi negli ultimi ritornelli e che l’eccitazione extra faccia pensare agli ascoltatori che il tempo sia aumentato. Si asseconda il cambiamento di sentimento, ma il tempo non è necessariamente cambiato. L’importante è che si sia riusciti a far decollare il brano e che si stia ancora swingando. C’è però la tendenza dei musicisti ad arrampicarsi insieme, e prima che te ne accorga il colore e la dinamica vanno fuori dalla finestra – e se non c’è una finestra, allora ne creano una.
“Una sezione ritmica viene spesso criticata da diversi punti di vista da persone con concezioni diverse su come dovrebbe suonare. Un batterista può fare un break di quattro battute in un arrangiamento, ma se poi qualcuno non arriva a tempo, alcuni dicono che è colpa del batterista, perché non hanno ascoltato bene quello che ha suonato. Diranno che avrebbe dovuto suonare qualcosa di più semplice, ma quelle erano le quattro battute del batterista e finché fosse rientrato per il primo beat della quinta battuta avrebbe potuto uscire e fare il giro dell’isolato. Non è colpa sua se qualcun altro non riesce a tenere il tempo.
“Sono passato attraverso quei microsolchi in cui non ci sono molti elementi nella sezione ritmica, in cui il batterista deve essere sempre il più forte. Jimmie Crawford, per me, era uno dei più grandi batteristi del mondo. Quello che ha ottenuto con la band di Jimmie Lunceford è stato qualcosa di diverso. Papa Jo Jones è un altro. Chick Webb l’ho ascoltato soprattutto nei dischi, ma una volta ero fuori dal Savoy quando ero troppo giovane per entrare e avevano le finestre aperte. È stato il primo batterista che ha avuto senso in una big band, e questo mi è rimasto impresso. Il suo tempo era proprio lì. Sapeva come sfumare e colorare, e come portare una band in alto e mantenerla lì. Anche Big Sid Catlett era così. L’ho sentito al Meadowbrook di Frank Dailey nel New Jersey quando era con Benny Goodman. La differenza era che Chick era un bandleader ed era obbligato a fare cose che non avresti fatto come sideman, non che non fosse un grande accompagnatore. Sid era un uomo grande e grosso e ogni volta che voleva essere potente lo sapevi, ma il tocco personale, nel suono della sua batteria e nel suo stile, era molto nitido e di buon gusto. Anche Dave Tough mi ha influenzato con la sua semplicità. Se c’era un modo per evitare di fare assoli, lo faceva. Aveva un buon suono di batteria e teneva sempre la cassa sotto al contrabbasso, in modo che si potesse sentire la melodia che il bassista stava suonando. In effetti, si percepiva la sua cassa più che sentirla, e non entrava in conflitto con il resto della band. Anche in quei vecchi dischi di Chick Webb, spesso si percepiva la grancassa tanto quanto la si sentiva, e così era al Savoy. È molto facile entusiasmarsi per la batteria e mettere in ombra gli altri componenti della band, soprattutto se la batteria è troppo stretta, tanto da sembrare una mitragliatrice. Poi cominci a suonare i rimshot e più tutte le persone vicino a te cominciano a tirarsi indietro”.
— “Sam Woodyard? È uno swinger”.
Duke Ellington stava facendo un bilancio dei suoi uomini, e questo riassunto in tre parole del batterista che è stato con lui più a lungo di chiunque altro, a parte Sonny Greer, rifletteva il suo apprezzamento per una delle virtù cardinali di Woodyard. Inoltre, spiegava in parte la rapida intesa che esiste tra loro, che diventa più evidente in studio di registrazione quando lavorano su nuovo materiale. Ellington può mimare le sue richieste dalla sala di controllo, danzarle sul pavimento dello studio o dettagliarle verbalmente.
— “Chang, chang, chang”, dice chiedendo l’uso dei piatti.
— “Suona quattro battute di introduzione, Sam”, mentre prepara una routine, “sedici battute di esotismo, e poi fai il ponte”.
— “Gutbucket, proprio dall’inizio.[2] Ci sei! Vado a dirigere, Sam”.
— “Mettici un po’ più di sesso”.
Una volta, quando Ellington si era ritirato nella sala di controllo durante una seconda ripresa, suonò una nota di disappunto per i risultati:
— “Sam, stavi swingando quando ero là fuori”.
— “Questo perché non sei qui”, fu la risposta del batterista.
— “Pazzo, baby, sono con te”.

Nelle registrazioni dell’album Afro-Bossa non c’erano parti per i percussionisti, per quanto complicati fossero spesso i loro ruoli, e in un’occasione è emersa una certa dose di finta disaffezione per questo stato di cose.
— “Dov’è la mia parte?” Billy Strayhorn (al “secondo campanaccio”) chiese a Tom Whaley.
— “E dov’è la mia?” chiese Woodyard, che non ne riceve mai una.
Pochi secondi dopo, Whaley gli consegnò un foglio di carta manoscritta con una grande lettera B sopra.
— “Che cosa significa?”.
— “Sii naturale! [Be natural]”.
— “Sii pronto [Be ready], pensavo”.
— “Sii qui [Be here]!” Johnny Hodges disse.
Un altro giorno, mentre stavano registrando una raccolta di temi delle band per un prodotto Reprise, Woodyard insiste che Ellington gli chiese di “get in the alley”[3] su The Waltz You Saved for Me di Wayne King[4]. Si trattava di una richiesta molto diversa da quella che faceva spesso al batterista di “put the pots and pans on”[5].
“È una vecchia espressione del Sud”, ha spiegato Woodyard. “Date all’uomo un po’ di prosciutto, verdure e pane di mais! In origine, quando l’uomo tornava a casa per la cena e non c’era nulla di pronto, diceva: “Beh, metti su le pentole!”[5].
. Quello che intendiamo nella band è: “Swinga e alzati da terra, e restaci finché non sei pronto a scendere”. Potrei aggiungere che il piatto più bello del mondo non è nulla se non c’è sale e pepe per accompagnarlo, ed è così anche in una band se la sezione ritmica non è quella giusta.
“Ogni giorno si impara qualcosa di nuovo, non è sempre come fare qualcosa, ma come non farla. Mi sono trovato malissimo con quello shuffle quando abbiamo registrato Artistry in Rhythm[6]. Sono rimasto sveglio per metà notte a suonare sulle sedie e sul letto. Duke ha spesso le sue idee su ciò che vuole che tu suoni e si avvicina e dice: “Fai questo con questa mano e quello con quell’altra”. E può essere difficile mettere insieme i tempi e farli corrispondere all’arrangiamento. Non avevo mai suonato uno shuffle con le mani in quel modo e non era difficile nel modo in cui volevo farlo, ma quello che voleva lui era un’altra cosa. Suonando con le mani, non riesco a proiettare il ritmo con molta potenza alla band. Il suono arriva al microfono abbastanza forte, ma non ai musicisti, e si diventa tesi. La registrazione ha sempre i suoi problemi.
“La prima volta che andai allo studio della Columbia con questa band, un tizio venne dalla sala controllo con una coperta prima ancora che iniziassimo a suonare. L’ho fatto smettere.
— “Mettila sopra la cassa”, mi disse.
— “Per cosa?”
— “Lo facciamo per tutti i batteristi che vengono qui. Se non si copre la cassa, la puntina inizia a saltare”.
— “Sono affari tuoi. Non mi dica come suonare la batteria. Spostate il microfono indietro, perché io suonerò nel modo in cui suono di solito per la band”.
“La band può essere in grado di swingare sul livello e arrivare a una parte in cui inizia a fumare davvero, e voi salite tutti insieme. Dovreste essere lì. Se il batterista non lo fa, i ragazzi della band dicono: “Amico, cosa ti è successo?”. Ma il tecnico viene fuori e dice che hai fatto saltare la puntina, con trecento dollari di microfoni proprio in grembo, così che non riesci a girare intorno alla batteria per suonare quattro battute.
“Chiunque può sempre venire da me e dirmi: “Dammi un po’ di sapore qui, o fai questo qui”. Oppure possono dirmi dove salire e dove scendere. Basta che non mi dicano su quale tamburo suonare!
“Amo tutti quelli che suonano con il cuore. Mi piace la gente che ama vivere. Ci sono solo ventiquattro ore in un giorno e non le riavrai mai indietro, quindi fai del tuo meglio come puoi e dove puoi. ‘Ovunque’ è stata una parola importante per la nostra band negli ultimi anni, abbiamo viaggiato così tanto, ma tutti parlano davvero la stessa lingua. Si tratta solo di metter su le pentole!”.

[1] Intervista tratta da Stanley Dance, The World of Duke Ellington, 1970, DaCapo Press..
[2] in origine il termine gutbucket 𝘴𝘵𝘢𝘷𝘢 𝘢𝘥 𝘪𝘯𝘥𝘪𝘤𝘢𝘳𝘦 𝘶𝘯 𝘴𝘢𝘭𝘰𝘰𝘯 𝘱𝘦𝘳 𝘪𝘭 𝘨𝘪𝘰𝘤𝘰 𝘥’𝘢𝘻𝘻𝘢𝘳𝘥𝘰 𝘢 𝘣𝘢𝘴𝘴𝘰 𝘤𝘰𝘴𝘵𝘰, 𝘥𝘰𝘷𝘦 𝘪 𝘮𝘶𝘴𝘪𝘤𝘪𝘴𝘵𝘪 𝘱𝘰𝘵𝘦𝘷𝘢𝘯𝘰 𝘴𝘶𝘰𝘯𝘢𝘳𝘦 𝘪𝘯 𝘤𝘢𝘮𝘣𝘪𝘰 𝘥𝘪 𝘥𝘦𝘯𝘢𝘳𝘰, ma anche le budella; poi è andato a definire 𝘢 𝘩𝘪𝘨𝘩𝘭𝘺 𝘦𝘮𝘰𝘵𝘪𝘰𝘯𝘢𝘭 𝘴𝘵𝘺𝘭𝘦 𝘰𝘧 𝘫𝘢𝘻𝘻 𝘱𝘭𝘢𝘺𝘪𝘯𝘨.
[3] Il riferimento è all’espressione Tin Pan Alley (letteralmente “Vicolo della padella stagnata”), nome dato all’industria musicale newyorkese, specializzata nella scrittura di canzoni e nella stampa di spartiti, che dominò il mercato della musica popolare nordamericana tra la fine del diciannovesimo secolo e la prima metà del ventesimo secolo. In seguito il termine fu usato per designare (spesso in modo spregiativo) il tipo di canzoni promosso dall’industria musicale popolare nordamericana ed europea, prima dell’avvento della canzone d’autore negli anni 1960.
[4] https://www.youtube.com/watch?v=K2_eiOEpBz4
[5] letteralmente mettere le pentole e le padelle
[6] https://www.youtube.com/watch?v=4iDl5vxvpf8