Juan Tizol

Juan Tizol Martínez, celebre trombonista e compositore dell’orchestra di Duke Ellington, nacque a Vega Baja (Porto Rico)[1] il 22 gennaio 1900 e morì ad Inglewood, California, il 23 aprile 1984. Nel 1969 rilasciò questa bella intervista a Stanley Dance (amico e biografo di Ellington)[2], qui di seguito tradotta:

Juan Tizol nacque a San Juan, Porto Rico, il 22 gennaio 1900. Studiò con lo zio, Manuel Tizol, e da giovane suonò nei concerti municipali, quando una carriera nel jazz era allora inimmaginabile.

Juan Tizol (in bianco) con lo zio Manuel Tizol (seduto) e il cugino Antonio Tizol

“Fu lì che incontrai per la prima volta Duke Ellington. A volte veniva lì e suonava il piano con quattro o cinque pezzi. Allora non si chiamava Duke Ellington’s Orchestra o cose simili. Prendeva solo uomini a Washington quando ne aveva bisogno. Comunque, lo incontrai e mi ascoltò.
“Da lì andai a New York e stavo lavorando nel New Jersey con il pianista Cliff Jackson, quando mi fu chiesto di andare ad una delle trasmissioni radiofoniche che Duke faceva dal Cotton Club con quel grande annunciatore, Ted Husing. Duke mi chiese di portare lì il mio trombone e di andare in onda con lui, per provarlo. Poi mi disse: “Beh, uno di questi giorni presto ti manderò a chiamare”. E così fece nel 1929.
“Quando mi mandò a chiamare, l’unico altro trombone era Tricky Sam [Nanton]. C’era un grande contrasto nel modo di suonare, naturalmente, ma il vantaggio per Duke era che potevo suonare anche lavori veloci con la sezione dei sassofoni, o con le trombe. Io suonavo la seconda, terza o quarta parte, proprio le note. Nessun altro lo faceva all’epoca. Chi pensava che io avrei suonato il trombone in una band jazz? Quando capì cosa sapevo fare, scrisse piccole parti appositamente per me. In seguito, iniziai a scrivere io stesso, a scrivere melodie spagnole e a suonare per me.

‘Tricky Sam’ Nanton, Tizol e Lawrence Brown

“Ho scritto molti brani — Admiration, Moonlight Fiesta, Pyramid, Lost in Meditation, Conga Brava, Caravan — ma non mi sono mai dedicato agli arrangiamenti. Ho lasciato fare a Duke, perché lui capiva la sua band e in quel particolare momento non permetteva a nessun altro di arrangiare per la band. Anche se si trattava di un brano di repertorio, preferiva andare avanti e fare quattro chorus di accompagnamento, un coro d’insieme e basta. Credeva nello scrivere proprie cose, che nessuno poteva fare come piaceva a lui. A quel tempo, trascrivevo le parti ed alcune le facevo a matita. Ne ho fatte alcune nel libro che usano ora. Ci sono parti che ho copiato anni e anni fa, sempre a matita. Ero piuttosto veloce nel farlo. Il trasporto che avevo imparato a fare nel mio paese mi aiutava molto. Duke scriveva tutto in tonalità reale, e quando suonavo una parte di tromba dovevo trasporre, proprio come per i contralti e i tenori.

Tizol con la moglie Rosebud Brown sulla SS Olympic, 1933

“Rimasi con Duke per quindici anni. Me ne sono andato perché volevo venire in California. Avevo mandato mia moglie qui per occuparsi delle cose e cercare posti finché non fossi riuscito a passare. Stavo suonando con Duke allo Zanzibar, tra la 49ª e Broadway a New York, quando Harry James mi chiamò al telefono del club e mi chiese se potevo unirmi a lui. “Signore”, dissi, “ho appena firmato con Woody Herman!” Avrei preferito stare con Harry perché è un californiano e mia moglie era già qui. Così ne parlai con lui e poi con Woody Herman e Woody disse: “Beh, se è così, vai con lui e stracceremo il contratto”.
“Così andai con Harry James e rimasi sette anni qui. Poi tornai con Duke Ellington per altri tre anni. E nel frattempo andavo con Louis Bellson e Pearly Bailey con il loro spettacolo.

Juan Tizol, il trombonista David Robbins e Willie Smith, durante la loro permanenza nell’orchestra di Harry James, ca. 1944

“Beh, sembrava che mi stessi stancando di stare in giro e mi mancava mia moglie. Potevo tornare a casa solo una volta all’anno. Così dovetti partire. Imploravo Duke: “Lasciami andare a casa, lasciami andare a casa”. Gli chiedevo di lasciarmi tornare a casa per sei settimane, quando eravamo da queste parti, e poi mi sarei riunito alla band. Questo andò avanti fino a quando non riuscii più a sopportarlo e dissi: “Devo lasciarti, ecco tutto!”. Oh, sì, stavo invecchiando, ma non era questo il problema. Era lo stare sempre in viaggio. Era troppo lungo e non potevo sopportarlo. Ora viaggiano in aereo, ma è altrettanto brutto, e io non viaggio in aereo”.
Quando il suo buon amico, il defunto Willie Smith, si congedò dalla Marina, Tizol si occupò di trovargli un posto nella band di James. Nel 1951, insieme a Louis Bellson, si unirono a Ellington. Ripensando a quel periodo poco prima della sua morte, Smith disse quanto segue:
“Duke e Tizol sono amici da una vita. Sono quasi come fratelli. Anche io e Tizol lo siamo. È l’uomo più puntiglioso del mondo. Arriva ovunque con mezz’ora di anticipo, pronto a iniziare. Così, quando presi delle cattive abitudini in quella band, era davvero disgustato”.

Tizol ha sorriso quando gli è stato raccontato questo, e ha continuato: “La puntualità è sempre stata una mia abitudine. Voglio essere puntuale, in modo che, in caso di ritardo, sia io a rimproverare, non il leader. Ho sempre creduto nell’essere pronto: mezz’ora o un’ora nel camerino, a soffiare un po’ nello strumento, così da essere pronto per iniziare il lavoro. Mi sono fatto una reputazione per questo, ma ho sofferto molto nella band, perché non potevo sopportare tutte le sciocchezze. Ho cercato di andare d’accordo con tutti e non ho avuto amici speciali. Sono nato bene e cresciuto bene. Bevevo un bicchiere ogni tanto, ma non ero mai nella condizione in cui dovevo bere sempre. Non ho mai bevuto in quel modo, non ho mai fumato marijuana, né preso droghe, niente del genere. Ho smesso di fumare a gennaio [1969] e ora avrei bisogno di una sigaretta, ma non la tocco. È difficile, soprattutto dopo cena.
“Ora sono in pensione e non suono più. Ho fatto lo show di Frank Sinatra per più di un anno quando era in televisione. Sono stato con Nat Cole per un anno o due. Vede quel pianoforte nell’angolo? Me l’ha dato prima di morire. Ho lavorato anche per Nelson Riddle, registrando con tutte le star, e quel tipo di lavoro mi piaceva molto”.
Nonostante la sua reputazione di persona puntuale, di musicista coscienzioso e di moderazione, Tizol è anche ricordato nella band di Ellington, sorprendentemente, come un burlone. Un famigerato incidente con una fialetta puzzolente sul palco di Philadelphia non fu perdonato subito.
“Ero solito scherzare e fare scherzi nella band”, ha ammesso. “Una volta misi della polvere pruriginosa sul braccio di Duke poco prima che si alzasse il sipario. “Duke, che ora è?” chiesi, e mentre fingevo di guardare l’orologio, gli strofinavo la polvere sul braccio. Quando il sipario si alzò, cominciò a fare gesti strani con il braccio, perché non capiva cosa non andasse. Ma mi fermarono definitivamente un giorno, quando eravamo all’ufficio di Mills a Broadway. C’era una festa, per Natale o qualcosa del genere, e tutti avevamo dei piccoli regali. Qualcuno mise uno di quei petardi sotto la mia sedia. Quando esplose, pensai che sarei volato sul tetto. Quell’episodio mi fece smettere completamente.

“Una delle cose più divertenti che mi sono successe fu nel 1939, quando andammo in Europa e suonammo due concerti a Parigi, in quel teatro a prova di bomba [il Palais de Chaillot]. Il locale era tutto esaurito da non so quante settimane. La gente era lì in completo e abito da sera. C’erano i critici, amici e nemici. Tutti erano lì per scoprire questa band di Duke Ellington.
“Di solito, Caravan era il secondo pezzo in programma. Ero così eccitato che passai parola: “Duke, non suonare Caravan, aspetta fino a più tardi!”. Io tremavo come una foglia, così lui promise che avrebbe aspettato fino all’ultimo. “Non preoccuparti”, mi disse, “non preoccuparti di nulla. Andrà tutto bene. Non preoccuparti”. È lì che imparai a conoscere Duke Ellington: non fidarsi di ciò che dice su cose del genere.
“Stavo iniziando a rilassarmi un po’, e all’improvviso annuncia il secondo brano, Caravan, e il mio nome. L’ho chiamato in tutti i modi. Dovevo andare al microfono, ma non riuscivo a camminare. Tutto quello che potevo fare era alzarmi dalla sedia sul palco e suonare. Il mio stomaco faceva gurgle, gurgle, gurgle e un solo chorus di Caravan sembrava durare due ore. Era una cosa terribile. La gente era così silenziosa. Non c’era rumore, tranne quando giravano le pagine del loro programma: si riusciva a sentirle! L’acustica era eccezionale lì dentro. Suonando con il trombone a campana aperta, pensavo: “Mio Signore, mi chiedo come suonerà…” Se avessi mancato una nota, avrebbe risuonato dappertutto.
“Mio cugino era in balconata e mi disse di aver pensato che fossi un po’ nervoso. Così mi preparai la seconda sera, andai in un bar e presi uno di quei bicchierini di brandy e lo bevvi tutto per riprendermi. Dissi a Duke: “Puoi suonare quello che vuoi stasera. Sono pronto ad andare là fuori!”. Così lanciò Caravan e andai al microfono. Quando tornai al mio posto, feci un saluto militare.
“Ho passato dei momenti meravigliosi con quell’orchestra, meravigliosi, meravigliosi. Anni fa, Duke mi faceva provare la band quando lui non poteva essere presente. Trascrivevo le parti e sapevo cosa stava succedendo. All’apertura dello spettacolo, non doveva essere sul palco. Usciva solo quando si alzava il sipario, così io facevo l’apertura. Quando eravamo al Cotton Club, Cab Calloway ci seguiva e io dovevo provare l’intero spettacolo per lui, perché la sua band avrebbe suonato esattamente lo stesso spettacolo che avevamo fatto noi.
“Duke è un uomo meraviglioso. È stato meraviglioso con me. In questo momento, tutto quello che devo fare è dire: “Duke, posso farlo?”, e lui mi risponde: “Vieni qui appena puoi”.”

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[1] e non a San Juan, come riportato di seguito. La località di nascita corretta è riportata in Basilio Serrano, Juan Tizol. His Caravan Through American Life and Culture, 2012, Xlibris Corporation.
[2] Intervista tratta da Stanley Dance, The World of Duke Ellington, 1970, DaCapo Press..

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Sam Woodyard

Sam Woodyard, batterista dell’orchestra di Duke Ellington, nacque a Elizabeth, New Jersey, il 7 gennaio 1925 e morì a Parigi, il 20 settembre 1988. Nel 1965 rilasciò questa bella intervista a Stanley Dance (amico e biografo di Ellington)[1], qui di seguito tradotta:

“La sera prima di entrare nella band di Ellington nel 1955″””, racconta Sam Woodyard, “Max Roach e io andammo in un locale di Philadelphia dove suonava Count Basie. Bill Graham era allora nella band, mi prese e lui, Basie, Freddie Green, Marshall Royal, Eddie Jones, Max e io andammo in una stanza di un hotel dietro l’angolo dove alloggiavano alcuni di loro. Restammo svegli tutta la notte.
“Ero spaventato, pensando che nella band di Duke ci sarebbe stata uno spartito della batteria da paura. Come avrei fatto a leggerlo a prima vista? Non ero mai stato da un insegnante di batteria in vita mia. Tutto quello che avevo imparato era stato da persone che avevano fiducia in me e che si erano sedute e mi avevano mostrato le cose. Ora, tutti noi stavamo bevendo whisky e quei cats si stavano dando alla pazza gioia, ma io ero così spaventato che ero sobrio.
— “Al diavolo”, mi dissero, cercando di tranquillizzarmi, “vai lì e swinga!”.
— “Beh, non ne sono sicuro…”.
— “Vai lì e ascolta, e suona come hai fatto finora”.
“Il giorno dopo Milt Buckner mi accompagnò fino a New York con la batteria e salì con me alle prove negli studi di Nola. Jimmy Woode, il bassista, arrivò mentre stavo preparando e mi disse: “Ehi, baby, sono contento di averti nella band!”. Gli dissi come mi sentivo e lui mi rispose: “Lascia perdere. Tutti si sentono così il primo giorno”. Ed è quello che ho detto a molti nuovi arrivati nella band da allora.
“Quando mi guardai intorno, Max Roach era seduto lì, ma era comunque dalla mia parte. C’erano anche Art Blakey e Shadow Wilson. Anche se erano miei amici, questo non mi rese le cose più facili”.
“Il primo pezzo che Duke chiamò fu Harlem Airshaft. Non lo sapevo, ma capii subito dove andava a parare il brano, e Clark Terry si chinò e disse: “Ho capito” e mi disse le cose man mano che andavamo avanti. Quando finimmo il pezzo, Duke si avvicinò alla band e disse,
— “Signori, conoscete Sam Woodyard?”.
— “Sì, l’ho conosciuto”, disse Paul Gonsalves. Si girò con un sorriso che era il suo modo per dire che avevo swingato abbastanza. E questo mi fece sentire meglio.

“Dopo aver suonato un po’ di cose, Duke chiamò qualcosa che non suonavano da sei mesi. La band aveva fatto un acquashow per tutta l’estate e Johnny Hodges si era riunito alla band proprio quel giorno. “Guardate qui”, disse Clark Terry. “Avevo pensato che tutti sapessero cosa fare tranne me, ma ora scoprivo chi stava suonando o no la sua parte.
La prima sera con la band, Duke mi chiese: “Quanto conosci Skin Deep?”. Non lo conoscevo bene e il tipo di assoli che avevo fatto con Milt Buckner erano molto liberi. Ero preoccupato di trascinare Duke e i cats e credo che la mia performance fosse piuttosto strana, ma Clark mi incoraggiò di nuovo. “Sai, anche noi stiamo litigando”, mi disse, “e domani sarai a trecento miglia da qui”. Mi insegnò l’intero repertorio in circa una settimana, e aveva un ottimo modo di insegnare senza urlare e senza metterti in imbarazzo, in modo che la gente davanti non pensasse: “Beh, hanno un nuovo batterista”. Indicava le cose con la mano, o diceva: “Hai quattro battute alla fine del ritornello” e così via. Era seduto in fondo alla sezione delle trombe, accanto a me.
“Clark, Paul, Jimmy Woode e Willie Cook furono dalla mia parte fin dall’inizio, ma anche quelli che non parlavano si avvicinarono presto, e avemmo avuto un piccolo assaggio, e mi dissero che avrebbero voluto che suonassi in questo o quell’altro modo dietro di loro, e così ci siamo riuniti tutti. Si sono accorti che volevo suonare per il gruppo e che per me non faceva alcuna differenza se era con le bacchette, con le spazzole o con le mani. Non ha senso che tu costruisca una casa e io un garage se non siamo nella stessa proprietà”.

Sam Woodyard è nato a Elizabeth, nel New Jersey, il 7 gennaio 1925. Sua madre ricorda che da piccolo era solito battere i ritmi sulle sedie e sui mobili di casa. Suo padre suonava la batteria nei fine settimana e fu così che anche suo figlio entrò in scena.
“Volevo entrare nelle bande scolastiche”, ha ricordato Woodyard, “ma non mi lasciavano entrare. Avevano un’orchestra da ballo e una band che suonava per quella che chiamavano ‘Assemblea’. Avrei potuto entrare proprio quando lasciai la scuola, il giorno del mio sedicesimo compleanno, ma allora volevo aiutare mia madre, e una volta che vai avanti e lo fai non puoi più tornare indietro”. Da un giorno all’altro, a una settimana, a un mese, a un anno, a un altro anno, a un altro anno ancora…
“Quando lasciai la scuola, trovai un lavoro diurno e suonavo il sabato sera, a volte con una matinée. Poi fui fortunato e lavorai con un trio tre sere a settimana, usando le spazzole. Questa è stata una delle cose positive che ho imparato presto. Alla maggior parte dei batteristi non piace suonare con le spazzole. Quasi tutti i trii di allora erano composti da sassofono, pianoforte e batteria, quindi in termini di tempo tutto dipendeva dal batterista. Il boom-boom della cassa era importante, ma poteva diventare piuttosto misterioso, perché allora non avevo le qualifiche per ottenere un buon suono complessivo.

The Organ Trio, 1954: Ernie “Big Ham” Williams, Milt Buckner , Sam Woodyard. Otto Flückiger Collection

“Il primo nome davvero promettente con cui ho lavorato è stato Milt Buckner, nel suo trio con l’organo. Lo incontrai al Pep’s Bar and Grillc di Philadelphia nel 1953. Ero andato lì con un sassofonista del Jersey di nome Joe Holiday e i due gruppi lavoravano dietro il grande bar, uno per ogni estremità. Quando Milt stava per partire per il Band Box di New York, un locale vicino al Birdland che ora si chiama International, mi chiese se fossi interessato a raggiungerlo. “Benissimo”, risposi, “sono con te!””.
Woodyard rimase con lui due anni e mezzo. All’inizio il gruppo comprendeva il chitarrista Ernest Williams, ma in seguito Danny Turner, il sassofonista contralto, prese il suo posto. Guardando la sua successiva carriera, il periodo con questo trio fu di inestimabile valore per Woodyard. Sebbene un gruppo del New Jersey chiamato Barons of Rhythm lo avesse ispirato da ragazzo – ne facevano parte sia Bobby Plater che Ike Quebec – non aveva alcuna esperienza con le big band, a parte qualche occasionale concerto nei fine settimana. L’esperienza migliore fu suonare con Milt Buckner, perché era molto simile a quella di una big band.
“Alcuni organisti suonano in horn stile, ma Milt suonava con uno stile a mani chiuse e con tutti gli ‘strumenti’ che riusciva a far suonare”, racconta Woodyard. “Quando andavo ad Atlantic City con lui, Wild Bill Davis era dietro l’angolo e aveva Chris Columbus alla batteria. Chris mi prese sotto la sua ala. Scendevamo alle quattro, ma spesso suonavano molto più tardi. Tra un set e l’altro, andavo ad ascoltarlo e magari mi sedevo nel suo camerino, e a volte veniva al mio posto e si sedeva alla batteria. Ha dimenticato più di quanto la maggior parte dei batteristi saprà mai e mi ha mostrato molte cose, soprattutto sul suonare con l’organo. Devi ascoltare i suoni che ritornano, perché è una cosa elettronica. Quando l’organista suona il basso, si sente il suono del suo piede che colpisce il pedale, quindi bisogna più o meno inserirsi tra i beat. Poi bisogna essere costanti, perché la sua gamba si stanca dopo circa un’ora e il tempo può iniziare a calare un po’.
“Suonare con l’organo è davvero una cosa a sé stante, e molti batteristi lo trovano impossibile. Alcuni organisti aggirano la difficoltà registrando con un bassista, perché il basso dell’organo è difficile da prendere correttamente. Da quello che mi hanno detto Wild Bill Davis, Bill Doggett e Milt, la cosa che più si avvicina al vero suono del basso è suonare le stesse note con la mano sinistra e con il piede sinistro. Non si poteva usare un bassista di persona, perché non lo si sarebbe mai sentito. Ho rotto più pelli di cassa nel periodo in cui sono stato con Milt che in tutto il tempo in cui sono stato con Duke Ellington, perché devi suonare con una tale potenza con l’organo. Loro hanno quel pedale del volume e quando sono a metà della corsa vedi la punta abbassarsi – e puoi aspettare che si alzi! E poi hanno quegli altoparlanti sparsi per tutto il locale, e il suono si alza sempre verso l’una o le due di notte, e tu devi andare forte con l’uomo. In alcune di queste stanze intime, si possono vedere le bottiglie e i bicchieri che tremano sugli scaffali. Le persone assorbono parte del suono quando la stanza è affollata, ma se si apre la porta si può sentire a un isolato di distanza.
“Milt Buckner era una persona meravigliosa per cui lavorare e aveva un cuore grande come il mondo. Quando andavi al lavoro, tutto quello che avevi dentro lo davi, anche quando ti sentivi in colpa. Era entusiasta e stimolante, sia sul palco che fuori, e non sapevi mai cosa sarebbe successo da un giorno all’altro. Anche gli errori che facevi erano diversi! Suonavamo con ingaggi da una o due settimane a Philadelphia, Cleveland, Detroit, Toledo e nel South Side di Chicago. Prima di stare con Milt, stavo con Paul Gayten, e facevamo sempre la strada del sud, con lo shuffle e il backbeat. Quindi non era una novità per me quando sono venuto a fare cose come Asphalt Jungle con Duke.
“È strano come il ritmo shuffle stimoli la gente, e io ci aggiungo un po’ di bounce. Chris Columbus lo faceva al Club Harlem e saltava su e giù – tutto a tempo – su un sellino di bicicletta che aveva. La gente cercava di avvicinarsi a lui e restava a guardarlo fino alle nove o dieci del mattino, e quando usciva il sole splendeva.
“La batteria può essere molto emozionante. La gente si sentiva come in una lotta al suono della batteria. I tamburi li facevano sentire come se stessero combattendo. Dopo un po’ puntavano i cannoni in una certa direzione, liberavano tutti, gridavano “Carica!” e andavano verso quel muro o qualsiasi cosa si frapponesse.
“Ora, quando suono il mio assolo di batteria, la band se ne va e mi lascia. Se nel corso dell’assolo c’erano dei riff della band, ciò mi metteva in una specie di morsa e dovevo suonare tutti i segnali per farli rientrare. Questo significherebbe raccontare la stessa storia del venerdì che hai raccontato il lunedì. E la band che se ne va è una specie di espediente commerciale, come quando Duke presenta il suo “primo percussionista” e io mi guardo intorno come se stesse per far entrare un altro batterista. Questo fa arrabbiare un po’ di persone. Potrei starmene seduto lì con la faccia di pietra, ma in questo modo mi riscaldo di più. Ci sono molte persone che iniziano a correre verso i bagni degli uomini e delle donne. È molto scoraggiante vedere la gente che si alza e se ne va, anche se so che ci sono altri che considerano l’assolo di batteria come il momento culminante. Non so mai cosa farò. Quello che suono stasera sui tom lo suonerò domani sera sul rullante e la sera dopo sui piatti. Quando mi viene in mente qualcosa che penso si integri con quello che la band sta facendo, lo tengo. Cerco davvero di pensare prima alla band, e a volte quando arriva il momento del mio assolo non ho davvero l’energia per suonarlo. Non si tratta sempre di stanchezza fisica, ma emotiva, perché riesco a divertirmi anche quando la band suona una ballad.

“Non sono mai stato in grado di leggere velocemente, ma non c’è mai più di quanto si possa ricavare da uno spartito. Devi uscire e farlo qualche volta. Ho un orecchio veloce e se sento una cosa una volta la suonerò la seconda volta, non mi importa cosa sia. Un insegnante può dire: “Ora sei qualificato per suonare”, ma quando entri in una band, il tempo cala e il leader dice: “Qual è il tuo problema? Suona e basta! Sei un batterista. Ascolta e continua a suonare”. E tu non riesci a farlo. Quello che ti ha insegnato l’insegnante era una procedura corretta, ma cosa significa ‘corretta’ in una situazione come quella?
“Oggi non ci sono molte opportunità per i giovani batteristi di fare esperienza nel sostenere il peso di una band come quella di Duke Ellington. Ci si siede dietro la batteria, si guarda intorno al palco e ci sono quei quattordici musicisti, ed è un peso musicale enorme. Ognuno batte il piede e pensa bene, ma in realtà ci sono quattordici tempi diversi, perché ognuno ha il suo modo di battere il piede. Uno è un po’ indietro rispetto al ritmo e un altro ci sta sopra. Sarebbe facile farsi influenzare, ma non ci si può permettere di farlo. Bisogna anche pensare in termini di sezioni e di schema generale. Mantenere l’insieme, oltre a compiacere il bandleader, significa spesso sacrificare se stessi.
“Ho avuto la possibilità di suonare con la band di Basie una sera in cui eravamo in congedo. Anche questo mi spaventava, visto che ero stato con la band di Duke. Si potrebbe pensare che sia il contrario, per il tipo di arrangiamenti e il modo in cui suoniamo in questa band, ma non volevo essere un peso e poi era da tanto che non suonavo con un chitarrista. Quando salii sul palco, sentii subito la differenza tra le quattro ritmiche e le nostre tre, spesso due quando Duke dirige. Non conoscevo gli arrangiamenti, ma Freddie Green era seduto proprio di fronte alla cassa e Thad Jones era alla mia sinistra, e tra loro due mi davano le indicazioni, proprio come faceva Clark Terry.
“Quando hai uno come Freddie Green nella sezione, non ci sono problemi, perché ascolta e non è mai rigido. Davanti, forse non lo senti sempre, ma lo senti. I musicisti sicuramente lo sentono. Con un chitarrista come lui, potrei suonare Diminuendo e Crescendo in Blue con le spazzole invece che con le bacchette e ottenere lo stesso fuoco dietro Paul Gonsalves. Questo è il tipo di persona che Freddie è, e questo è il tipo di cose che colpiscono le persone senza che se ne rendano conto. A volte suoniamo Diminuendo e non decolla. Forse abbiamo viaggiato in autobus tutto il giorno e i ragazzi sono stanchi. Non si può suonare ogni sera come facevamo nel 1956. È difficile anche per Paul, perché deve suonare per soddisfare il pubblico e sé stesso. Naturalmente, ci sono dei piccoli segni di identificazione personale che conservi, perché ti piace sentirli da solo. Ma essendo liberi, si può cambiare idea o seguire una strada diversa, solo per vedere cosa succede. Quando abbiamo fatto il disco, era solo la terza volta che lo suonavo, o meglio i numeri 107 e 108 del libro. In quell’occasione, come disse Duke al microfono, si interpose tra essi un ‘wailing interval di Paul Gonsalves’. Poiché non lo conoscevo, nel disco ci sono alcune pause davvero brutte e un lavoro approssimativo, ma un noto critico mi fece un’ottima recensione. Chi può sapere meglio di me se mi sbagliavo o meno? Piuttosto strano!

La celebre performance di Diminuendo and Crescendo in Blue al Festival di Newport del 1956


“Nessuno è perfetto. Per me, chiunque possa stare seduto, in piedi, appoggiato a un muro o appeso per le dita dei piedi e dire di essere perfetto è un dannato bugiardo. Poiché l’uomo l’ha costruito, anche un metronomo non è perfetto. In una sezione ritmica, è tutta una questione di ascolto. Il tempo varia per molte ragioni. Forse è la stanchezza. Può calare per disinteresse o salire per entusiasmo. A volte il tempo non cambia, ma cambia il colore della melodia. Può accadere che si infiammi negli ultimi ritornelli e che l’eccitazione extra faccia pensare agli ascoltatori che il tempo sia aumentato. Si asseconda il cambiamento di sentimento, ma il tempo non è necessariamente cambiato. L’importante è che si sia riusciti a far decollare il brano e che si stia ancora swingando. C’è però la tendenza dei musicisti ad arrampicarsi insieme, e prima che te ne accorga il colore e la dinamica vanno fuori dalla finestra – e se non c’è una finestra, allora ne creano una.
“Una sezione ritmica viene spesso criticata da diversi punti di vista da persone con concezioni diverse su come dovrebbe suonare. Un batterista può fare un break di quattro battute in un arrangiamento, ma se poi qualcuno non arriva a tempo, alcuni dicono che è colpa del batterista, perché non hanno ascoltato bene quello che ha suonato. Diranno che avrebbe dovuto suonare qualcosa di più semplice, ma quelle erano le quattro battute del batterista e finché fosse rientrato per il primo beat della quinta battuta avrebbe potuto uscire e fare il giro dell’isolato. Non è colpa sua se qualcun altro non riesce a tenere il tempo.
“Sono passato attraverso quei microsolchi in cui non ci sono molti elementi nella sezione ritmica, in cui il batterista deve essere sempre il più forte. Jimmie Crawford, per me, era uno dei più grandi batteristi del mondo. Quello che ha ottenuto con la band di Jimmie Lunceford è stato qualcosa di diverso. Papa Jo Jones è un altro. Chick Webb l’ho ascoltato soprattutto nei dischi, ma una volta ero fuori dal Savoy quando ero troppo giovane per entrare e avevano le finestre aperte. È stato il primo batterista che ha avuto senso in una big band, e questo mi è rimasto impresso. Il suo tempo era proprio . Sapeva come sfumare e colorare, e come portare una band in alto e mantenerla lì. Anche Big Sid Catlett era così. L’ho sentito al Meadowbrook di Frank Dailey nel New Jersey quando era con Benny Goodman. La differenza era che Chick era un bandleader ed era obbligato a fare cose che non avresti fatto come sideman, non che non fosse un grande accompagnatore. Sid era un uomo grande e grosso e ogni volta che voleva essere potente lo sapevi, ma il tocco personale, nel suono della sua batteria e nel suo stile, era molto nitido e di buon gusto. Anche Dave Tough mi ha influenzato con la sua semplicità. Se c’era un modo per evitare di fare assoli, lo faceva. Aveva un buon suono di batteria e teneva sempre la cassa sotto al contrabbasso, in modo che si potesse sentire la melodia che il bassista stava suonando. In effetti, si percepiva la sua cassa più che sentirla, e non entrava in conflitto con il resto della band. Anche in quei vecchi dischi di Chick Webb, spesso si percepiva la grancassa tanto quanto la si sentiva, e così era al Savoy. È molto facile entusiasmarsi per la batteria e mettere in ombra gli altri componenti della band, soprattutto se la batteria è troppo stretta, tanto da sembrare una mitragliatrice. Poi cominci a suonare i rimshot e più tutte le persone vicino a te cominciano a tirarsi indietro”.

— “Sam Woodyard? È uno swinger”.
Duke Ellington stava facendo un bilancio dei suoi uomini, e questo riassunto in tre parole del batterista che è stato con lui più a lungo di chiunque altro, a parte Sonny Greer, rifletteva il suo apprezzamento per una delle virtù cardinali di Woodyard. Inoltre, spiegava in parte la rapida intesa che esiste tra loro, che diventa più evidente in studio di registrazione quando lavorano su nuovo materiale. Ellington può mimare le sue richieste dalla sala di controllo, danzarle sul pavimento dello studio o dettagliarle verbalmente.
— “Chang, chang, chang”, dice chiedendo l’uso dei piatti.
— “Suona quattro battute di introduzione, Sam”, mentre prepara una routine, “sedici battute di esotismo, e poi fai il ponte”.
— “Gutbucket, proprio dall’inizio.[2] Ci sei! Vado a dirigere, Sam”.
— “Mettici un po’ più di sesso”.
Una volta, quando Ellington si era ritirato nella sala di controllo durante una seconda ripresa, suonò una nota di disappunto per i risultati:
— “Sam, stavi swingando quando ero là fuori”.
— “Questo perché non sei qui”, fu la risposta del batterista.
— “Pazzo, baby, sono con te”.

Nelle registrazioni dell’album Afro-Bossa non c’erano parti per i percussionisti, per quanto complicati fossero spesso i loro ruoli, e in un’occasione è emersa una certa dose di finta disaffezione per questo stato di cose.
— “Dov’è la mia parte?” Billy Strayhorn (al “secondo campanaccio”) chiese a Tom Whaley.
— “E dov’è la mia?” chiese Woodyard, che non ne riceve mai una.
Pochi secondi dopo, Whaley gli consegnò un foglio di carta manoscritta con una grande lettera B sopra.
— “Che cosa significa?”.
— “Sii naturale! [Be natural]”.
— “Sii pronto [Be ready], pensavo”.
— “Sii qui [Be here]!” Johnny Hodges disse.

Un altro giorno, mentre stavano registrando una raccolta di temi delle band per un prodotto Reprise, Woodyard insiste che Ellington gli chiese di “get in the alley”[3] su The Waltz You Saved for Me di Wayne King[4]. Si trattava di una richiesta molto diversa da quella che faceva spesso al batterista di “put the pots and pans on”[5].
“È una vecchia espressione del Sud”, ha spiegato Woodyard. “Date all’uomo un po’ di prosciutto, verdure e pane di mais! In origine, quando l’uomo tornava a casa per la cena e non c’era nulla di pronto, diceva: “Beh, metti su le pentole!”[5].
. Quello che intendiamo nella band è: “Swinga e alzati da terra, e restaci finché non sei pronto a scendere”. Potrei aggiungere che il piatto più bello del mondo non è nulla se non c’è sale e pepe per accompagnarlo, ed è così anche in una band se la sezione ritmica non è quella giusta.
“Ogni giorno si impara qualcosa di nuovo, non è sempre come fare qualcosa, ma come non farla. Mi sono trovato malissimo con quello shuffle quando abbiamo registrato Artistry in Rhythm[6]. Sono rimasto sveglio per metà notte a suonare sulle sedie e sul letto. Duke ha spesso le sue idee su ciò che vuole che tu suoni e si avvicina e dice: “Fai questo con questa mano e quello con quell’altra”. E può essere difficile mettere insieme i tempi e farli corrispondere all’arrangiamento. Non avevo mai suonato uno shuffle con le mani in quel modo e non era difficile nel modo in cui volevo farlo, ma quello che voleva lui era un’altra cosa. Suonando con le mani, non riesco a proiettare il ritmo con molta potenza alla band. Il suono arriva al microfono abbastanza forte, ma non ai musicisti, e si diventa tesi. La registrazione ha sempre i suoi problemi.

“La prima volta che andai allo studio della Columbia con questa band, un tizio venne dalla sala controllo con una coperta prima ancora che iniziassimo a suonare. L’ho fatto smettere.
— “Mettila sopra la cassa”, mi disse.
— “Per cosa?”
— “Lo facciamo per tutti i batteristi che vengono qui. Se non si copre la cassa, la puntina inizia a saltare”.
— “Sono affari tuoi. Non mi dica come suonare la batteria. Spostate il microfono indietro, perché io suonerò nel modo in cui suono di solito per la band”.

“La band può essere in grado di swingare sul livello e arrivare a una parte in cui inizia a fumare davvero, e voi salite tutti insieme. Dovreste essere lì. Se il batterista non lo fa, i ragazzi della band dicono: “Amico, cosa ti è successo?”. Ma il tecnico viene fuori e dice che hai fatto saltare la puntina, con trecento dollari di microfoni proprio in grembo, così che non riesci a girare intorno alla batteria per suonare quattro battute.
“Chiunque può sempre venire da me e dirmi: “Dammi un po’ di sapore qui, o fai questo qui”. Oppure possono dirmi dove salire e dove scendere. Basta che non mi dicano su quale tamburo suonare!
“Amo tutti quelli che suonano con il cuore. Mi piace la gente che ama vivere. Ci sono solo ventiquattro ore in un giorno e non le riavrai mai indietro, quindi fai del tuo meglio come puoi e dove puoi. ‘Ovunque’ è stata una parola importante per la nostra band negli ultimi anni, abbiamo viaggiato così tanto, ma tutti parlano davvero la stessa lingua. Si tratta solo di metter su le pentole!”.

Foto Roberto Polillo


[1] Intervista tratta da Stanley Dance, The World of Duke Ellington, 1970, DaCapo Press..
[2] in origine il termine gutbucket 𝘴𝘵𝘢𝘷𝘢 𝘢𝘥 𝘪𝘯𝘥𝘪𝘤𝘢𝘳𝘦 𝘶𝘯 𝘴𝘢𝘭𝘰𝘰𝘯 𝘱𝘦𝘳 𝘪𝘭 𝘨𝘪𝘰𝘤𝘰 𝘥’𝘢𝘻𝘻𝘢𝘳𝘥𝘰 𝘢 𝘣𝘢𝘴𝘴𝘰 𝘤𝘰𝘴𝘵𝘰, 𝘥𝘰𝘷𝘦 𝘪 𝘮𝘶𝘴𝘪𝘤𝘪𝘴𝘵𝘪 𝘱𝘰𝘵𝘦𝘷𝘢𝘯𝘰 𝘴𝘶𝘰𝘯𝘢𝘳𝘦 𝘪𝘯 𝘤𝘢𝘮𝘣𝘪𝘰 𝘥𝘪 𝘥𝘦𝘯𝘢𝘳𝘰, ma anche le budella; poi è andato a definire 𝘢 𝘩𝘪𝘨𝘩𝘭𝘺 𝘦𝘮𝘰𝘵𝘪𝘰𝘯𝘢𝘭 𝘴𝘵𝘺𝘭𝘦 𝘰𝘧 𝘫𝘢𝘻𝘻 𝘱𝘭𝘢𝘺𝘪𝘯𝘨.
[3] Il riferimento è all’espressione Tin Pan Alley (letteralmente “Vicolo della padella stagnata”), nome dato all’industria musicale newyorkese, specializzata nella scrittura di canzoni e nella stampa di spartiti, che dominò il mercato della musica popolare nordamericana tra la fine del diciannovesimo secolo e la prima metà del ventesimo secolo. In seguito il termine fu usato per designare (spesso in modo spregiativo) il tipo di canzoni promosso dall’industria musicale popolare nordamericana ed europea, prima dell’avvento della canzone d’autore negli anni 1960.
[4] https://www.youtube.com/watch?v=K2_eiOEpBz4
[5] letteralmente mettere le pentole e le padelle
[6] https://www.youtube.com/watch?v=4iDl5vxvpf8

Paul Gonsalves

by Stanley Dance[1]

“Paul Gonsalves è un musicista meraviglioso”, ha detto Duke Ellington. “Altamente qualificato, con un’enorme immaginazione, è in grado di dare forma a qualsiasi cosa gli venga in mente. Questo è raro, naturalmente, e va ben oltre quello che si trovava nel jazz degli albori. A quei tempi, i ragazzi non potevano proporre tutte le idee che gli venivano in mente. Dovevano essere intelligenti e pieni di risorse, e limitare le loro esibizioni a quando avevano piena autorità. Paul non deve preoccuparsi di limitazioni di questo tipo”.

 “Anche quando ora faccio un assolo” dice Paul Gonsalves “posso tornare ad alcune cose che suonavo da ragazzino”.
 I genitori di Gonsalves erano originari di Capo Verde e suo padre insegnò a lui e ai suoi due fratelli a suonare la chitarra. Impararono a suonare la musica delle danze popolari portoghesi ed appresero gli stili hillbilly e Hawaiian dalla radio e dai dischi. Nei fine settimana, amici e parenti della famiglia passavano a visitarli e i ragazzi dovevano rimanere a casa per intrattenere gli ospiti. Questo interferiva pesantemente con le attività sportive di Gonsalves e il trio divenne un lavoro di routine. “Ho accumulato questa cosa dentro di me finché sono arrivato ad odiare la musica”, ha ricordato, “specialmente quella monotona che spesso dovevamo suonare”.
 Fortunatamente, il fratello maggiore, Joseph, aveva un’intuizione per il jazz e Gonsalves ricorda come entrambi fossero attratti da un disco di Ellington che un deejay usava come tema la mattina presto, quando Joseph si vestiva per andare al lavoro. La sera ascoltavano anche le trasmissioni di band dal vivo e il sabato Joseph spendeva sempre parte del suo stipendio in dischi di Ellington, Henderson e Lunceford. Gonsalves ebbe modo di riconoscere tutti i grandi solisti di quell’epoca, ma cominciò più che altro ad interessarsi a suonare quando, a sedici anni, Joseph lo portò a uno spettacolo di mezzanotte al teatro della RKO di Providence.
 “La sensazione che mi prese quando il film terminò, tutte le luci si spensero, le tende si aprirono e vidi la band di Jimmie Lunceford… Cavolo! Naturalmente conoscevo tutti i loro dischi, conoscevo tutti gli assoli di Willie Smith e mi piaceva la band accanto a quella di Duke. Quando tornai a casa quella sera ero così entusiasta che decisi che da quel momento in poi avrei suonato il sassofono. Così tormentai mio padre finché non uscì e me ne comprò uno, un tenore da cinquanta dollari piuttosto malridotto, ma pur sempre un sassofono”.
 “Coleman Hawkins è stato la mia principale influenza. C’era qualcosa nella sua musica che coincideva con quella di Duke, che per me denotava classe. Oltre alla sua abilità di musicista, c’era qualcosa di personale in lui: il modo in cui teneva lo strumento, il modo in cui si vestiva. Lo chiamavo “il Duke Ellington del sassofono”. Il suo stile sembrava più musicale di quello degli altri tenori, una sorta di modo classico di suonare. Ammiravo Lester Young, ma Coleman Hawkins era quello giusto per me”.
 “Quando mi diplomai nel 1938, finalmente abbandonammo il trio. Volevo diventare un grafico pubblicitario ed ebbi la possibilità di ottenere una borsa di studio per una delle migliori scuole di grafica pubblicitaria del paese, la Rhode Island School of Design, ma ero diventato abbastanza bravo a suonare sia il sax che la chitarra e trovai un lavoro a Providence. Fu il mio primo lavoro professionale, in smoking, a suonare dalle cinque del pomeriggio all’una di notte. Feci colpo sui musicisti locali e questo accrebbe il mio ego”.
 Gonsalves ebbe la fortuna di trovare un tutor che aveva insegnato al conservatorio di Boston e che si interessò veramente a lui. Non guardava dall’alto in basso il jazz e fu una tale fonte di ispirazione che Gonsalves si esercitava diligentemente: “otto ore al giorno, quattro al mattino e quattro al pomeriggio”. Dopo tre anni la sua competenza tecnica comprendeva tutto ciò che il suo insegnante gli aveva potuto impartire, ma su consiglio di quest’ultimo studiò clarinetto per un altro anno. (Molti anni dopo, in Canada, prese il clarinetto di Harry Carney e suonò alcuni arpeggi. Ellington uscì subito dal camerino. “Chi è che suona il clarinetto?”, volle sapere. Gonsalves aveva modellato il suo stile su quello di Barney Bigard).
 Anche se non studiò l’armonia e la teoria come suggerito dal suo insegnante, Gonsalves scoprì che il suo background di chitarrista gli era di grande aiuto quando si trattava di affrontare le nuove progressioni di accordi. “Ho sempre avuto la tendenza a suonare molte note, perché avevo molta abilità tecnica. I musicisti dicevano: “Perché non suonare in modo meno complicato?” Ma io ho sempre pensato di dover suonare il più possibile e questo, si può dire, ha plasmato il mio stile. Anche se sono stato influenzato da alcuni grandi musicisti, oggi sento di aver dedicato allo strumento abbastanza tempo e studio da poter iniettare i miei sentimenti in ciò che suono.
 “Il mio maestro mi insegnò che, poiché il jazz è in gran parte improvvisato, è possibile prendere da tutti i tipi di musica. Mi incoraggiò ad ascoltare e ad ampliare il mio raggio d’azione, e ho scoperto che questo è vero. Molte delle citazioni divertenti e dei riferimenti nel jazz derivano da esperienze musicali diverse, come quella di far parte di una piccola band da palcoscenico. È possibile ascoltare i riferimenti classici nei dischi di Louis, Bird e Dizzy. Quando un musicista jazz si alza per suonare un chorus, per raccontare una storia, tutte queste idee sono nella sua mente e possono saltare fuori in qualsiasi momento. La vera arte sta nel come utilizzarle”.
 La prima esperienza di Gonsalves in una band fu in un gruppo di otto elementi a Providence, guidato da Henry McCoy e chiamato Jitterbugs. Quando il gruppo si sciolse, si unì a Phil Edmonds a New Bedford.
 “Fu allora che scoprii le difficoltà che si incontrano quando si è lontani da casa”, ha raccontato, “ma queste esperienze ti arricchiscono nel suonare. Quello che si doveva aggiungere alla musica, dopo aver studiato tutti quei libri, era qualcosa che dovevi vivere. Eravamo un gruppo di ragazzi giovani e se il giorno dopo non avevamo niente da mangiare lo consideravamo parte del gioco. Sono felice di aver fatto quelle esperienze. C’erano così tante opportunità a quei tempi, anche se la paga era di soli tre dollari a notte. C’erano posti per suonare, posti per fare jam e posti, per così dire, per andare a scuola. Si poteva trovare un lavoro in cui si dovevano accompagnare spettacoli di vaudeville, e anche quella era un’esperienza. L’opportunità di suonare era importante. I musicisti suonavano senza badare ai soldi, dopodiché andavano da qualche altra parte a fare le jam. Anche le big band erano scuole, e ogni piccola città o località ne aveva. Nei dintorni di Boston ci saranno state venti band di quattordici o quindici elementi. I colleghi facevano le prove per niente e la conversazione in quelle prove era molto incentrata sugli assoli di artisti famosi nei dischi. Oggi c’è così tanto stress per conformarsi al business che è diventato tutto più preconfezionato. Quei tempi non si ripeteranno”.
 Fin dal momento in cui lasciò la scuola superiore, Gonsalves scoprì di potersi guadagnare da vivere con la musica. Fu nell’esercito dal 1942 al 1945. Quando tornò dall’India, si unì a Sabby Lewis e la sua fama cominciò a diffondersi. I musicisti in visita passavano parola sul “giovane tenorista del Savoy di Boston”. Alla fine, quando Jacquet partì, ricevette una telefonata da Count Basie, e lo raggiunse al Royal Theatre di Baltimora. Fece crollare il teatro suonando Mutton Leg di Jacquet.
 Dopo quattro anni con Basie, tornò per un po’ da Sabby Lewis. Poi lo chiamò Dizzy Gillespie. “Mi sono interrogato su di me, perché non mi consideravo un artista “moderno”, ma se Dizzy vedeva qualcosa nel mio modo di suonare… beh, forse dovevo andare”. Ci rimase fino a quando la band si sciolse (“era una delle migliori che Dizzy avesse mai avuto”) e poi partì per New York con i suoi risparmi.

Addis Abeba
John Coltrane, Jimmy Heath e Paul Gonsalves nell’orchestra di Dizzy Gillespie

“Non sapevo se ce l’avrei fatta nella Grande Città. Pensavo che sarei morto di fame, come un artista in una soffitta. Ma in realtà successe che avevo qualcosa da fare di fico ogni giorno. Andavo in quel posto sulla 110ma strada e facevo jam, e Charlie Parker veniva lì, e magari di giorno Gene Ammons, Charlie e io uscivamo in barca a remi.
 “Settembre era arrivato e cominciava a fare un po’ freddo e decisi di trovarmi un lavoro. Una mattina mi svegliai con soli sette dollari e venti centesimi. Non riuscivo a dormire e per tutto il giorno qualcosa continuava a dirmi di alzarmi, vestirmi e andare al Birdland. Si fecero le undici di sera prima che mi decisi a farlo. C’era una folla intorno al tavolo dove era seduto Duke. Quando si alzò per andarsene, avevo già bevuto un po’. Di solito sono timido, ma ora avevo abbastanza coraggio per dirlo:
 «Ciao, Duke, come stai?»
 «Di’, tu non sei Paul Gonsalves?»
 «Sì»
 «Ehi, tesoro, ti stavo cercando. Perché non vieni in ufficio domani?»
 “Il risultato fu che mi chiese di fare una serie di date con la band. Segretamente, pensavo: “Ho questo lavoro, perché conosco tutti gli assoli di Ben Webster dai dischi”. La prima cosa che Duke suonò fu C Jam Blues, e poi Settin’ and a-Rockin’. Così gli chiesi se aveva ancora Chelsea Bridge, e mentre mi alzai per suonare il mio assolo lo sentii dire a Quentin Jackson:
 «Questo tizio suona proprio come Ben [Webster]!»
 “Così ottenni l’ingaggio.

 “Se domani dovessi morire, riterrei di aver avuto successo perché quando iniziai a studiare musica era con l’idea di far parte di quella band. In questi dieci anni ho cercato di mantenere un suono che si adattasse ad essa. Il mio insegnante diceva che, pur dovendo avere una buona tecnica per facilitare le proprie idee, bisognava cercare soprattutto di avere un buon timbro. Ecco perché ho sempre ammirato Coleman Hawkins, Don Byas e Ben Webster e perché, quando suonavo anche l’alto con Sabby Lewis, ho sempre cercato di suonare come Johnny Hodges.
 “Quando Charlie Parker e i modernisti irruppero nella scena, un certo suono dritto[2] divenne una necessità, e non solo per suonare velocemente. Con le armonie più ravvicinate che si sono create con il concetto moderno di jazz, lo stile di suonare con un vibrato molto ampio doveva sparire o la musica avrebbe suonato stonata. Credo che la musica riflettesse i tempi. C’era più tensione, velocità, nevrosi. Il jazz era stato stereotipato e ricordo di essermi annoiato mentre ero nella band di Basie. Cambiamenti del genere non avvengono solo nella musica. L’importanza dell’arte è il modo in cui influisce sulle cose pratiche. Non abbiamo i soldi per comprare un Picasso, ma le sue opere possono influenzare le linee, ad esempio, di una lampada. Le linee derivano da quei dipinti e oggi si può vedere la bellezza nelle cose che dieci anni fa non si poteva vedere. Forse questo spiega perché mi piaceva tanto il jazz, lo preferivo alla musica classica. C’era una certa libertà e potevo interpretare le mie idee.
 “Ora, si può forse nominare una band che esegue performance più precise e costanti, ma nessuna che suona musica così complicata e non ortodossa come quella che scrive Duke. Sta ancora progredendo. Alcuni compagni non sempre capiscono alcune delle cose che porta oggi nella band. Pensano che siano un po’ troppo avanzate e dicono: “Cosa sta cercando di fare? Ma Duke sa che la sua band è composta da quindici musicisti e sa anche che sono esseri umani. È pronto a far sì che le esibizioni varino, a seconda di come si sentono i ragazzi e a seconda di quello che riesce a tirare fuori da loro. Una sera potremmo fare schifo, ma la sera dopo potremmo suonare benissimo. Quando c’è quella fusione tra ragazzi che hanno voglia di suonare, quando tutto va per il verso giusto e stiamo suonando la musica nel modo in cui dovrebbe essere suonata, allora è la più grande band che ci sia. Ho sentito Duke dire a qualcuno: “Non puoi stare alla guida di una band di questo tipo con una frusta e aspettarti di ricavarne musica”. Una volta ho lavorato per un paio di settimane con Tommy Dorsey[3], e Tommy era un ragazzo meraviglioso, ma non c’era alcun feeling e musicalmente era penoso[4].
 “La vera storia del successo di Diminuendo e Crescendo in Blue è rilevante, credo. Ci fu una grande controversia tra i musicisti di New York quando andammo al Birdland su cosa avremmo fatto in un posto prevalentemente ‘moderno’. Dicevano: “La band di Duke morirà lì dentro”, ma all’epoca swingavamo di brutto. Di punto in bianco, Duke disse: “Tira fuori 107, 108”. Non l’avevo mai suonata, anche se avevo il disco originale a casa. Quella volta in particolare, quando finirono di suonare la prima parte, mi avvicinai a lui e gli dissi:
 «Lasciami suonare qualche giro qui»
 «Vai!», rispose.
 “Non so quanti chorus suonai, ma so che provocò una certa eccitazione. La gente era in piedi sulle sedie. Non la suonammo più fino a quella volta a Newport. Ci stavamo preparando per andare in scena quando Duke mi chiamò dietro le quinte.
 «Paul, ti ricordi quel pezzo che abbiamo suonato al Birdland – 107, 108?»
 «Sì», risposi.
 «Ecco cosa voglio che suoni stasera. Quando avremo finito la prima parte, scenderai in campo e suonerai per tutto il tempo che vorrai»

 “Quando uscì il disco, sulla copertina c’erano molte cose su Jo Jones che ritenevo molto sbagliate. È successo che quella sera c’era un vero sentimento di competizione nella band, e salimmo sul palco per suonare al meglio che potevamo. Dopo tutti i piccoli gruppi, l’impatto di una big band è ciò che si desidera per il finale di un festival. Paul Desmond mi disse poco dopo: “Quello che tu e la band avete suonato è stata la dichiarazione più onesta di quella sera”.
 “Naturalmente, pensai di aver suonato solo un paio di minuti. Non ho mai cercato di memorizzare il disco. Non ce l’ho nemmeno a casa e non l’ho mai ascoltato. È diventato sempre più difficile farlo, sera dopo sera, perché la gente si aspetta che io suoni a lungo. La durata è determinata dal modo in cui la sezione ritmica lavora e da come tutto si costruisce. Il climax può arrivare dopo dieci o cinque chorus, ma se si va oltre si distrugge tutto. Una sera a Des Moines, in Iowa, un ragazzo davanti allo stand mi fece arrabbiare.
 «Mm, tu, Paul Gonsalves… non credo che possa suonare così a lungo come nel disco», disse.
 «Così suonai sessantasei chorus. Alcune sere lo suono e le idee arrivano, ma altre volte non arrivano»”.
 Come Ellington e Johnny Hodges si premurano di sottolineare, tuttavia, Gonsalves dà il meglio di sé nelle ballad e nei brani di atmosfera lenta. Lo si sente spesso in una versione ricca e rapsodica di In a Sentimental Mood con la band, e ha registrato versioni attraenti di brani di Hodges, come Warm Valley e Day Dream, così come The Midnight Sun Never Sets di Quincy Jones. Sui pezzi a tempo veloce soddisfa la concezione pubblica del tenore frenetico e trascinatore, ma dietro l’immagine sacrificale rimane uno dei solisti più eccitanti del settore. Si spera che la sua simpatia per l’elemento “moderno” sia stata resa evidente in questa occasione. Tuttavia, il suo gusto per il jazz è estremamente ampio, anche se criticamente selettivo. Quando la band suonava allo Storyville di Boston, insisteva, durante gli intervalli, per accompagnare i suoi amici al piano di sotto ad ascoltare Memphis Slim e Willie Dixon. “Questo è autentico”, diceva, intendendo che all’interno del loro idioma si trattava di artisti autentici.
 Mentre Duke Ellington era in Francia per lavorare al film Paris Blues, Gonsalves, come altri membri della band, trascorse gran parte delle sue vacanze negli studi di registrazione. Registrò con John Lewis, con Nat Adderley, con un gruppo di percussioni e con Booty Wood. Alla guida di un gruppo che comprendeva Sir Charles Thompson, Ray Nance, Harold Ashby, Aaron Bell e Jo Jones in due sessioni, non solo suonò il tenore, ma anche la chitarra, per la prima volta su disco.
 “Chi ti ricorda?”, chiese sorridendo. “Teddy Bunn?”

[1961]

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[1] Intervista tratta da Stanley Dance, The World of Duke Ellington, 1970, DaCapo Press.
[2] straight tone nel testo originale [N.d.T.].
[3] fu nel febbraio del 1953 e venne sostituito da Tony Scott [N.d.R.].
[4] Miserable nel testo originale [N.d.T.].

Un Duca pluripremiato!

Quella del premio Pulitzer del 1965 è una storia che ha a che fare con il nostro Duke Ellington, il quale ne fu un mancato protagonista, suo malgrado.

Se infatti andiamo a scorrere l’albo d’oro dell’ambito premio, nell’anno 1965 vediamo che non fu assegnato a nessuno. Ciò che fece discutere allora è che la giuria aveva proposto Ellington come assegnatario del premio per la sua “vitalità e originalità di tutta la sua produttività”, ma per strane ragioni il premio non fu assegnato. Il fatto scatenò l’ira di due dei tre commissari della giuria, Winthrop Sargeant e Robert Eyer, i quali, in seguito al fatto, rassegnarono le dimissioni.

Ellington, reagì rilasciando una dichiarazione che non poteva essere se non una tipica frase a la Duke:

«Il destino è gentile con me; non vuole che diventi troppo famoso mentre sono ancora troppo giovane».

La storia, che sembrava ormai archiviata e destinata a rimanere nell’ambito dell’aneddotica ellingtoniana, è ritornata alla ribalta questa passata estate, quando il famoso critico musicale Ted Gioia ha preso spunto dalla notizia della restituzione ufficiale dei premi vinti dall’atleta Jim Thorpe nel 1912 da parte del Comitato Olimpico Internazionale, per scrivere un articolo sul suo sito e proporre di riparare il torto subito dal nostro musicista preferito. A seguito della sua esposizione, molte altre voci autorevoli si sono espresse a favore della proposta, tanto da convincere pochi giorni dopo Gioia ad avviare una raccolta firme con la speranza di poter mettere sul tavolo della discussione la questione al comitato del Pulitzer.

Che venga o no restituito il Pulitzer, non fu di certo l’unica occasione in cui Ellington ricevette premi e riconoscimenti di varia natura, alcuni dei quali molto prestigiosi. Già dagli anni ’40 Ellington cominciò a collezionare targhe, medaglie e titoli onorifici e a vincere molti referendum dei lettori nelle riviste specializzate — attività che all’epoca riscuoteva un certo successo e che veniva vissuta come una sorta di torneo a suon di votazioni di gradimento e che spesso comportava ai vincitori (distinti per categorie) l’esibizione in eventi ad hoc, agganci e contratti con sponsor o compagnie discografiche. Ma è dalla fine degli anni ’50 che le università di tutto il mondo fecero a gara per conferire ad Ellington lauree e dottorati ad honorem, finché il presidente americano Richard Nixon gli conferì, nel 1969, la più alta onorificenza civile degli Stati Uniti — la Medal of Freedom — con un evento mondano alla Casa Bianca pieno zeppo di vip e musicisti in occasione del suo 70° compleanno, in cui la vera autorità istituzionale, più che Nixon, appariva essere proprio Duke!

Ed ecco che, mosso da un momento di autolesionismo, ho avuto la brillante idea di provare a fare una ricerca ed elencare tutti i vari premi e riconoscenze che Duke Ellington ricevette durante la sua cinquantennale carriera. Dopo diversi giorni a scartabellare libri, articoli, siti internet, ne è venuto fuori il seguente elenco, che consta — tra le varie cose — di 11 Grammy Award, innumerevoli lauree e dottorati Honoris causa e riconoscimenti istituzionali e civili.
Ah, si è scelto di escludere nominations e premi postumi, sperando che il più importante di essi possa finalmente essere il famoso Pulitzer!

1943

  • “Supreme Award of Merit” — George Washington Carver Memorial Institute
  • “New York Newspaper Guild Page One” award

1944

  • Vincitore nella categoria swing band nel referendum della rivista DownBeat

1946

  • Vincitore nelle categorie swing band e sweet band nel referendum della rivista DownBeat

1947

  • Honoray Doctorate of Music — St. Ambrose College, Davenport, Iowa

1948

  • Vincitore nelle categorie favorite band e favorite soloist nel referendum della rivista DownBeat

1949

  • Doctor of Music Honorary Degree — Wilberforce University, Ohio

1952

  • Targa in bronzo dell’Institute of Arts di Detroit, Michigan

1955

  • Special DownBeat award
  • L’11 aprile gli viene conferita la cittadinanza onoraria a Jacksonville, Florida
  • Certificato di merito della National Association of Negro Musicians

1956

  • Viene inserito nella Music Hall of Fame di DownBeat
  • Cover story della rivista TIME

1957

  • Il 23 gennaio viene nominato cittadino onorario di New Orleans, Louisiana
  • Co-chairman dell’NAACP Freedom Fund Drive
  • President’s Medal
  • Vincitore nella categorie composer nel referendum della rivista DownBeat ed eletto Personality of the Year nella categoria Jazz

1958

  • Vincitore nella categoria composer nel referendum della rivista DownBeat

1959

  • Spingarn Medal della NAACP “for the highest or noblest achievement by an American negro during the preceding year or years
  • Vincitore di tre Grammy Awards con l’album Anatomy of a Murder
    – Best Performance By A Dance Band
    – Best Musical Composition First Recorded And Released In 1959 (More Than 5 Minutes Duration)
    – Best Sound Track Album – Background Score From A Motion Picture Or Television

1960

  • L’8 febbraio viene deposta una stella col nome di Duke Ellington nella celebre Walk of Fame di Hollywood

1962

  • Gli vengono consegnate le chiavi della città di Washington D.C.
  • Vincitore nella categoria Big Band: Jazz nel referendum della rivista DownBeat

1963

  • Targa premio “Jazz Magazine Jay Award”
  • Vincitore nelle categorie Arranger/Composer e Big Band-Jazz nel referendum della rivista DownBeat

1964

  • Il sindaco di New York Robert F. Wagner gli consegna una targa in bronzo “one of our great American composers”
  • Honorary doctorate of humanities degree al Milton College, Wisconsin
  • Vincitore nelle categorie Arranger/Composer e Big Band-Jazz nel referendum della rivista DownBeat

1965

  • Viene inserito nella Kansas City Jazz Hall of Fame “for his contribution to the native American art known as jazz”
  • Il 2 agosto gli viene consegnata una medaglia in bronzo “Musician of every day” dal sindaco ad interim di New York Paul Screvane
  • Conferimento della Paris Medal
  • Conferimento della City of Chicago Medal
  • Vincitore nelle categorie Composer e Big Jazz Band nel referendum della rivista DownBeat
  • Grammy Award per l’album Ellington ’66 nella categoria Best Instrumental Jazz Performance – Large Group Or Soloist With Large Group

1966

  • Il presidente americano Lyndon B. Johnson gli conferisce la President’s Gold Medal
  • Il 1° maggio, viene insignito della Cittadinanza Onoraria nella città di Niigata, Giappone
  • Doctorate in Fine Arts — California College of Arts and Crafts, Oakland, California
  • Il 16 settembre viene istituito il Duke Ellington Day nella città di Oakland, California
  • Vincitore nelle categorie Composer e Big Band nel referendum della rivista DownBeat
  • Vincitore del Grammy Award nella categoria Best Original Jazz Composition per l’album In The Beginning God

1967

  • La Repubblica del Togo emette un francobollo dedicato a Ellington
  • Honorary Doctorate of Music — Murphy Fine Arts Center, Morgan State College. Baltimora, Maryland
  • Doctor of Music Honorary Degree — Yale University. New Haven, Connecticut
  • Honorary Doctorate of Music — Washington University. St. Louis, Missouri
  • Vincitore nelle categorie big band e composer nel referendum della rivista DownBeat
  • L’8 ottobre viene istituito il Duke Ellington Day nella Contea di Marin, California
  • Vincitore del Grammy Award nella categoria Best Instrumental Jazz Performance, Large Group Or Soloist With Large Group per l’album Far East Suite

1968

  • Il 20 febbraio gli viene conferita la Cittadinanza Onoraria della città di Rockford, Illinois
  • Doctor of Music Honorary Degree — Columbia College. Chicago
  • Il 21 novembre viene nominato dal presidente Johnson 26° membro del National Council On the Arts
  • Vincitore nelle categorie big band e composer nel referendum della rivista DownBeat
  • Il 25 aprile viene istituito il Duke Ellington Day nella città di Madison, Wisconsin e gli vengono consegnate le chiavi della città
  • Inserito nell’Ordern dos Músicos do Brasil
  • Grammy Trustees Award, Special Merit Award
  • Vincitore del Grammy Award nella categoria Best Instrumental Jazz Performance, Large Group Or Soloist With Large Group per l’album And His Mother Called Him Bill

1969

  • Doctor of Music Honorary Degree — The New England Conservatory. Boston, Massachusetts
  • Il 29 aprile il presidente Richard Nixon conferisce la Medal of Freedom in occasione del suo 70° compleanno
  • Il 26 maggio, il Governatore dello stato di New York proclama il Duke Ellington Day
  • Doctor of Music Honorary Degree — Brown University. Providence, Rhode Island
  • Il 16 giugno, con una mozione del Kingston and St. Andrew Corporation Council, gli vengono consegnate le chiavi della città di Kingston, Jamaica
  • Vincitore nelle categorie big band, composer e arranger nel referendum della rivista DownBeat
  • Il sindaco di New York John V. Lindsay proclama il 15 settembre Duke Ellington Day

1970

  • Il 23 febbraio viene eletto membro del National Institute of Arts and Letters
  • La NAACP lo insignisce dei premi Image e America’s Foremost Musician
  • Doctor of Humane Letters degree dal Christian Theological Seminary di Indianapolis “for his contributions to the field of sacred music”
  • Doctor of Music Honorary Degree — Assumption College. Worcester, Massachusetts
  • Viene istituito il 24 novembre l’Ellington Day nello stato del New Mexico
  • Vincitore nelle categorie big band e composer nel referendum della rivista DownBeat

1971

  • Viene inserito nella Songwriter’s Hall of Fame
  • Il 12 marzo viene nominato Membro dell’Accademia Svedese di Musica
  • Doctor of Music Honorary Degree — Howard University, Wasnington D.C.
  • Doctor of Music Honorary Degree — Berkeley College of Music. Boston, Massachusetts
  • Doctor of Music Honorary Degree— Saint John’s University, New York
  • Doctor of Music Honorary Degree — University of Wisconsin. Madison, Wisconsin
  • Honorary Diploma of Graduation — Armstrong High School, Washington, D.C.
  • Il 20 ottobre, la Repubblica del Ciad emette un francobollo dedicato a Ellington
  • Vincitore del Grammy Award nella categoria Best Jazz Performance By A Big Band per l’album New Orleans Suite

1972

  • Alla convention dell’American Federation of Musicians di Honolulu, viene premiato con la Honorary Gold Card Life Membership “per il duraturo contributo alla comprensione umana grazie alla buona musica”.
  • Cittadinanza Onoraria — Jacksonville, Florida
  • Cittadinanza Onoraria — Fort Worth, Texas
  • Tra il 17 e il 21 luglio viene celebrata la Duke Ellington Week nello stato del Wisconsin
  • Honorary Doctorate of Arts — Rider College Lawrenceville, New Jersey
  • Viene proclamato il Duke Ellington Day il 23 settembre nella città di Chicago, Illinois
  • Viene proclamato il Duke Ellington Day il 13 ottobre e conferita la Cittadinanza Onoraria nella città di Knoxville, Tennessee
  • Premiato dell’International Humanist Award per il suo contributo in “global public service”
  • Cittadinanza Onoraria — Baltimora, Maryland

1973

  • Viene proclamato il Duke Ellington Day il 28 gennaio nella città di Cincinnati, Ohio
  • Viene proclamato il Duke Ellington Day il 4 aprile nella città di Saint Louis, Missouri
  • Vincitore del Grammy Award nella categoria Best Jazz Performance By A Big Band del 1972 per l’album Togo Brava Suite
  • Doctor of Humanities Honorary Degree — Clark College. Atlanta, Georgia
  • Doctor of Music Honorary Degree — Ripon College, Ripon, Wisconsin
  • Doctor of Music Honorary Degree — Columbia University
  • Doctor of Music Honorary Degree e viene conferità la Cittadinanza Onoraria il 28 maggio — Fisk University. Nashville, Tennessee
  • Viene proclamato il Duke Ellington Day il 6 giugno nella città di Louisville, Kentucky
  • Il 6 luglio viene nominato Chevalier de la Legion d’Honneur in Francia

1974

  • Viene proclamato il Duke Ellington Day il 3 marzo nella città di Melbourne, Florida
  • Viene proclamato il Duke Ellington Day il 29 aprile nella città di San Diego, California

FONTI:
– Duke Ellington, La musica è la mia signora. L’autobiografia. Roma, 2014 (Titolo originale Music Is My Mistress, 1973)
http://tdwaw.ca/TDWAW1.html
http://tdwaw.ca/TDWAW2.html
https://www.grammy.com/artists/duke-ellington/11972
https://archive.org/details/pub_down-beat
https://rateyourmusic.com/list/Maccycor/down-beat-readers-poll-results-1938-1970/
– Antonio Berini, Giovanni M. Volonté, Duke Ellington. Un genio, un mito, Ponte alle Grazie. Firenze, 1994
https://web.archive.org/web/20120130222214/http://americanhistory.si.edu/archives/d5301c13.htm

The Jeepers: disco d’esordio!

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Quando ci si imbatte in un album che ha l’ambizione di riproporre musica Swing del passato, vi è sempre il rischio di rimanere delusi, vuoi perché lo si percepisce troppo lontano dall’estetica di quello stile, vuoi perché, al contrario, si assiste a un goffo tentativo di clonazione di certe registrazioni.
Questo però è uno di quegli album in cui tali timori vengono sin da subito messi a tacere. L’ascolto è rilassato, le tracce scorrono leggere una dopo l’altra, lo swing scorre a fiumi e l’ensemble sembra collaudatissimo.
Esordio discografico del gruppo romano The Jeepers, Harmony in Harlem (questo il titolo dell’album) è un lavoro curato e di altissimo livello. Il suo leader, Giorgio Cuscito, è un musicista noto nell’ambiente dello swing italiano e tra i principali protagonisti della Swing Revival degli ultimi anni. Conosciuto tempi addietro come pianista (ricordiamo la sua collaborazione, tra i tanti, con l’ultimo Tony Scott) e come vibrafonista, si è fatto valere da diversi anni anche come sassofonista. Sorprende però questa volta ascoltarlo in veste di sax alto, anziché tenore, come ci aveva abituato. Ma oltre alle sue doti di sassofonista, in questo lavoro e in questo gruppo, traspare tutto il suo amore e la conoscenza per Duke Ellington e la sua musica. Anzi, direi per il cosiddetto mondo di Ellingtonia, galassia autonoma e allo stesso connessa a un’epoca, che ruota intorno alla figura del pianista/compositore americano e dei suoi uomini. Già, perché i Jeepers nascono con lo scopo di far rivivere quelle splendide registrazioni di fine anni ‘30 che ellingtoniani come Rex Stewart, Johnny Hodges, Cootie Williams o Sonny Greer fecero mettendo insieme delle unità di pochi elementi estratti per lo più dalla grande orchestra ellingtoniana.
L’ensemble è così composto: Giorgio Cuscito (sax alto, direzione e arrangiamenti), Marco Guidolotti (sax baritono), Nicola Tariello (tromba), Massimo Pirone (trombone), Andrea Candela (piano), Pietro Ciancaglini (contrabbasso), Marco Rovinelli (batteria), con la partecipazione in tre tracce della cantante ospite Annalisa Eva Paolucci. Una all-stars praticamente!
Anche se è facile pensare che dei musicisti dall’alto profilo artistico possano insieme fare grandi cose, questo (l’esperienza ce lo insegna) invece non è affatto scontato. Ognuno dei musicisti partecipa dosando gusto, collaborazione e protagonismo, senza mai risultare sovrastante.
Ma cos’è che fa apprezzare l’ascolto di questo album? Direi che la qualità che più risalta (e che è quella che personalmente cerco soprattutto in un disco jazz), è il relax! È quella sensazione che fa percepire come allineati con l’universo anche i brani più concitati e scatenati. Sì, perché anche laddove vi sia eccitazione e voglia di scatenarsi sulla pista da ballo, non deve mai mancare quella rilassatezza che fa sì che l’eccitazione non si trasformi in rigidità o nervosismo.
L’album coglie subito nel segno già al primo ascolto, ma si fa apprezzare ancor più negli ascolti successivi. Inutile fare un commentario per ogni singola traccia; ognuno potrà apprezzare i vari assoli dei solisti o la solidità di una grande sezione ritmica o l’insieme dei fiati traccia dopo traccia. Vale però la pena per lo meno sottolineare l’assolo di contrabbasso di Ciancaglini in Honey Bunny: convinto e convincente, virtuosismo e solidità ritmica, vena melodica e buon gusto. Insomma, uno di quegli assoli che rimangono scolpiti nella mente e nell’animo di chi ascolta.
La musica, che era praticamente caduta nel dimenticatoio, con questo album torna a nuova vita completamente rispolverata e tirata a lucido, apparendo fresca, frizzante e non dando per niente l’impressione di avere circa 90 anni! Merito questo di Giorgio Cuscito che non solo ha avuto l’idea di riproporla, ma che ha curato degli arrangiamenti in grado di restituire a questi brani il giusto feeling, senza per questo risultare delle copie rattoppate.
Insomma, per gli amanti della musica di Duke Ellington e per tutti gli appassionati di jazz, questo è un album da non perdere!
Non rimane che invitarvi ad ascoltare questo bellissimo lavoro discografico!

L’album è in acquistabile in formato digitale presso lo store di BandCamp: https://cuscitoswing.bandcamp.com/album/harmony-in-harlem
E ascoltabile su Spotify:
https://open.spotify.com/album/0NE1kL0UV5t9P4jKbuLjzE#_=_

Intervista a Sonny Greer

by Scott K. Fish
Traduzione di Agostino Marzoli[1]

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William “Sonny” Greer è nato a Long Branch, New Jersey, il 13 dicembre 1903. “Non ero un bambino ricco”, ricorda, “ma non me la passai mai male. Eravamo una famiglia felice. Mia madre e mio padre erano molto religiosi. Mia madre era severa con noi. Il mio vecchio era un ‘onorevole scapestrato’! Mio padre era in grado di tirar fuori dal nulla vino, birra o whiskey! Avevo due sorelle e un fratello e l’amore tra noi era egualmente distribuito”.

Sonny fu il cuore pulsante di una delle più grandi orchestre d’America, la Duke Ellington Orchestra, dal 1923 al 1951. Di certo uno dei migliori batteristi di bigband del jazz, Sonny suonava un enorme drum set per l’epoca, sempre in una maniera musicale e spesso comica. Il suo rimpiazzo nell’orchestra di Ellington fu Louis Bellson! Sonny vive con sua moglie Millie, che conobbe al Cotton Club negli anni Venti. Sono entrambi persone affascinanti, divertenti e intelligenti, con un’entusiasta memoria del loro passato e Sonny è ancora attivo. Passa il tempo fuori dal suo appartamento a Manhattan a suonare con il suo amico, il pianista Brooks Kerr.[2] Kerr è praticamente un’enciclopedia vivente di Ellingtonia e fu presente a parte di questa intervista.

Ho ascoltato un po’ della musica degli anni ’20 di Ellington la scorsa notte e ho iniziato l’intervista chiedendo a Sonny come fosse differente suonare con un tubista e poi con un contrabbassista.

SG: Un tubista più di tanto non può fare. Non può fare molte cose come un contrabbassista.  Non usammo molto la tuba. Però usammo due contrabbassisti.[3] Vedi, un contrabbassista può coprire più terreno di un tubista. Così c’erano molte cose che poteva fare. Un tubista non può fare più di tanto. Un contrabbassista può fare un sacco di cose, come un pianista.

SF: Quale fu la differenza tra suonare con i bassisti Wellman Braud e Jimmy Blanton?

SG: Come il giorno e la notte. Jimmy Blanton era un virtuoso del contrabbasso. Era così bravo, che quando suonavamo a Boston, il contrabbassista della Boston Symphony, Koussevitzky, veniva a vedere Jimmy. Era uno dei contrabbassisti di punta della Boston Symphony e gli piaceva così tanto ascoltare Jimmy. Duke aveva sempre fiuto per i ragazzi in gamba. Koussevitzky era un bravo contrabbassista, ma Jimmy Blanton era il Re! Duke era un volpone. Metteva Blanton davanti a tutti. Koussevitzky era venuto nel backstage e aveva preso una sedia, così la mise proprio sul palco di fianco a Blanton! Non sentì mai nessuno suonare il basso come quello. Nessuno!

Vedi, Braud suonava differentemente, così come Jimmy suonava in un altro modo ancora, ma entrambi avevano energia da vendere! Si scatenavano soltanto quando volevano degli assoli o cose del genere. Poi negli anni Quaranta fu proprio Blanton a suonare il basso. Braud se ne andò nel 1935.

SF: Come ti sei appassionato alla batteria?

SG: Quando ero un bambino, vidi un attore di vaudeville di nome J. Rosamond Johnson. C’era un piano e batteria. Avevano un bellissimo spettacolo e il batterista era alto e molto, molto affabile. Cantava come un usignolo e non vidi mai nessuno suonare la batteria come quel tipo. Rimasero in teatro per una settimana e li andavo a vedere ogni sera.

Più o meno nello stesso periodo, mi intrufolavo furtivamente in una sala da biliardo e mi esercitavo a biliardo perché mi affascinava. Avevo solo 14 anni. Lì c’era lo stesso tipo che suonava la batteria e lo sconfissi a biliardo. Disse: “Ehi, ragazzino! Dove hai imparato a giocare così?”. Dissi: “Oh, da nessuno parte. Ci vuole solo molta concentrazione”. Disse: “Tu mi fai vedere come giocare, ed io ti insegnerò a suonare la batteria!” Quell’uomo era il mio idolo. Dissi: “Affare fatto”. Presi circa cinque o sei lezioni da quel tipo per imparare i fondamentali.

SF: Ascoltavi molta musica da ragazzo?

SG: Ero così impegnato come un diavolo che non avevo la possibilità di ascoltare la musica. Non era come è adesso. Ho sempre amato la musica. Avevamo una pianola a casa, di quelle in cui si inserivano i rulli. Pensavo che quella fosse la fine del mondo.

Quando ero al liceo, avevamo una grande orchestra per le assemblee e cose del genere. Tutti i ragazzi suonavano il violino ed il batterista era il peggiore della band. Non ci avevo fatto caso! Era il più tonto! Non era sveglio in classe. Era solito inventarsi una scusa per uscire dalla classe: “Devo andare ad esercitarmi”. Diceva sempre ai professori: “Vado ad esercitarmi in musica” ed usciva dalla classe al liceo. Sapevo che potevo batterlo. Era orribile. Non riusciva a fare niente. Così l’insegnante di musica, la donna che aveva formato l’orchestra, decise di darmi una possibilità nella band. Era anche la nostra insegnante di lingua ed io ero uno dei suoi alunni bravi. Al di fuori di una scuola completamente integrata, io ero l’unico di colore nella band. Nella mia vita non avevo mai suonato con una band di colore finché non mi trasferii a Washington.

Avevamo un piccolo gruppo al di fuori di quell’orchestra, eravamo in otto. Sapevano suonare e leggere. Avevamo due ragazze che cantavano. Facevo qualsiasi cosa per fare un po’ di soldi. Lavorai anche per una lavanderia a domicilio. Avevo una mappa delle strade. I pescherecci venivano sulle coste del New Jersey e ogni giorno, dopo scuola, andavo lì a fare commissioni per i pescatori. Caricavano di pesce il mio piccolo carretto fatto in casa e nel vicinato divenni l’“uomo pesce”. Facevo anche commissioni per la drogheria! Non mi dispiaceva lavorare. Non ero mai pigro. Facevo sempre qualcosa. Ne ero ossessionato. Volevo sempre fare soldi per darli a mia madre e mio padre.

Feci anche il caddy. I caddy erano apprezzati ed io ero il caddy numero uno di un club molto privato. Facevo il caddy per una delle figlie di Krueger, il più grande produttore di birra dell’Est all’epoca. Un giorno eravamo fuori sul corso; io stavo caricando una pesante borsa. Non avevano golf carts. Così stavamo camminando e prendemmo l’ottava buca nel rough! Questa ragazza in ogni caso non sapeva giocare a golf. Sai come sono i ricchi… C’era un ostacolo d’acqua sull’ottava buca e lei mandò la pallina lì. Disse: “Caddy, va’ a prendere la mia palla”. Era una di quelle palline da golf che galleggiavano. Così mi tolsi le scarpe e mi preparai per entrare nell’acqua quando vidi un serpente! Era nell’acqua con la pallina da golf in bocca! Ho una paura fottuta dei serpenti. Disse: “Caddy, prendi la mia palla” ed io: “No, va’ tu a prenderla!” La lasciai lì sull’ottava buca. Lanciai giù le pesanti borse e me ne tornai a piedi al golf club.

La stessa donna mi vide anni dopo a suonare con Duke alla Carnegie Hall. Venne a salutarmi. Disse a tutti “Lui era il mio caddy” e le persone che erano lì dicevano “Oh, sei pazza. Lui non può aver fatto il caddy per te!”

Dopo che mio padre vide che mi ero dedicato alla musica e che non lo avrei seguito nel fare l’elettricista per la Pennsylvania Railroad, disse: “Non mi interessa cosa tu sei, ma sii il migliore. Non lasciare che qualcuno ti inibisca”. Poiché avanzavo nel suonare la batteria, cominciai a farlo sempre di più.

SF: Quando ti sei trasferito a Washington? E come accadde?

SG: Quand’ero un ragazzino, un’estate presi un lavoro con quattro giovani musicisti che lavoravano nell’orchestra di buca del Red Bank Theater nel New Jersey. Sono cresciuto con Count Basie e Cozy Cole. Basie era sempre voluto essere un batterista. Lui e Cozy erano soliti intrufolarsi nel teatro gratis dicendo che erano i miei aiutanti. Si sedevano nella buca con me. Avevo circa tre pezzi. Count prendeva uno dei miei tamburi, Cozy ne prendeva un altro, io l’altro ancora e così loro non dovevano pagare. Poi presi un lavoro al Plaza Hotel ad Asbury Park, in New Jersey. I Conway Brothers – che erano famosi – mi invitarono a Washington per un weekend dopo la stagione. Così andai. Il secondo giorno che ero lì, stavo giocando a biliardo (il mio primo amore) in una sala da biliardo vicina all’Howard Theater. All’improvviso, il direttore del teatro viene e mi fa: “Ragazzo, mi serve un batterista. Il mio batterista è stato mandato via dalla città da sua moglie. Ha gli alimenti arretrati”. Il batterista era un tipo bizzarro di nome Tootie Perkins, che suonava con una band portoricana. Andai lì e fu la prima volta che vidi Juan Tizol. Rimasi lì per tre anni a suonare per gli spettacoli nella buca. Suonavamo fino all’una del pomeriggio. Poi ottenni un altro lavoro da mezzanotte alle due ed è quando conobbi Duke. Quando ero l’attrazione principale al Plaza Hotel con i Swanee Serenaders, Duke faceva il lavapiatti lì! Io ero una star! Non me l’avrebbe mai perdonato… Lo prendevo in giro tutto il tempo.

SF: Torniamo indietro per un minuto. Quando eri a scuola, studiavi percussioni e lettura della musica?

SG: Avevamo un’insegnante molto severa. Insegnava ogni cosa: le basi e i rudimenti. Era molto brava. Insegnava a tutti come leggere la musica. Non era niente di difficile, era una cosa nella media. Non era musica difficile. Molto semplice.

SF: Così dopo il liceo, fu la fine dei tuoi studi formali?

SG: Fu così. Sapevo in che direzione stavo andando. Nessuno poteva dirmi niente. I ragazzi al mio tempo erano più interessati a suonare nel modo corretto. I ragazzi ora non lo fanno come facevamo noi. Io non mi esercitavo mai fuori di scuola quando ero a casa. Man, mai! Mi avrebbero ucciso se battevo sui tamburi intorno a casa. Mi mettevo sotto e mi esercitavo a lavoro. Provavo qualcosa e se mi piaceva lo tenevo. Se non mi piaceva, lo buttavo via. Non ho mai suonato in modo meccanico nella mia vita.

SF: Quando hai conosciuto davvero per la prima volta Duke?

SG: Un giorno stavo in un angolo con Duke, Toby Hardwick, Claude Hopkins, Peter Miller ed i suoi due fratelli. Eravamo lì, ma io stavo in disparte! Mentendo come un cane! Ma non avevano mai visto nessuno come me. Duke era sempre calmo e timido, ma c’era un ragazzino lì, uno dei fratelli Miller… Era come Jo Jones, sempre in testa al palcoscenico. Così lo feci fuori. Non era mai stato al di fuori di Washington, ed io stavo parlando di New York e di Fats Waller, Willie The Lion [Smith], James P. Johnson. Dissi: “Ragazzo, questi sono i miei amici del cuore!”. Mentendo come un cane, dissi: “Ragazzo, noi usciamo sempre insieme”. Rimasero a bocca aperta. Sai com’era Duke. Lo presi e così ogni volta che vedevi me, vedevi anche lui e Toby. Non eravamo una band, ma se Duke prendeva un lavoro, io ero lì. Se Toby prendeva un lavoro io ero lì. E nel frattempo avevo altri due lavori.

Una sera partecipammo ad un concorso amatoriale al teatro. Il premio era qualcosa come 25 dollari. Duke conosceva due pezzi: “Soda Fountain Rag” e “Carolina Shout” che aveva imparato da un rullo di pianola. Vado alla sala da biliardo e dico ai ragazzi che li voglio al teatro come claque. Dico: “Quando Duke va su, deve vincere quel premio perché abbiamo bisogno di soldi!” Così Duke va e suona il suo “Carolina Shout” e quei tizi si alzano in piedi, acclamando e spaventando Duke a morte. Duke dice: “Ho preso i soldi” ed io rispondo: “Dammi i miei”. Lui fa: “Per cosa?” ed io: “Non hai sentito tutta quella cagnara? Ero io là sotto, man”. Così ci facemmo una bella cena in un ristorante ed una caraffa di corn whiskey. Così, ogni volta che c’era un concorso Duke diceva “Ehi! Porti il fan club?” ed io rispondevo “Yeah!”

Una sera in un altro teatro non c’erano soldi in palio. Il premio era una valigia. Dissi: “Che cosa ci facciamo con questa valigia? Non dobbiamo andare da nessuna parte”. Così mettemmo su il solito fan club e Duke vinse la valigia. La prendemmo e la demmo in pegno. Duke mi guardava con stupore.

Toby aveva un ignobile macinino che per farlo partire bisognava spingerlo per metà isolato. C’è un grande parcheggio a Washington chiamato Rock Creek Park. Il presidente Wilson era lì, in una di quelle lunghe auto Pierce-Arrows. La nostra macchina stava correndo giù dalla collina per farla partire quando i freni si rompono! Stavamo correndo giù dalla collina e vedevamo tutte quelle Pierce-Arrows andare da qualche parte. Ma noi non riuscivamo a fermare la macchina! Tutta l’FBI e tutti quelli che erano lì saltarono fuori dalle loro auto. Non sapevano cosa stesse succedendo. L’FBI dovette fermare tutta la scorta, con il presidente e tutti gli altri. Toby schiantò l’auto contro un albero e noi saltammo fuori e quelli dell’FBI ci dicono: “Cosa diavolo state facendo, ragazzi?”. Eravamo terrorizzati! Dico: “Signore, i freni non hanno funzionato. Questo è il motivo per cui siamo venuti giù di corsa dalla collina”. “NON SAPETE CHE QUELLO È IL PRESIDENTE?”, “Sì signore”. Beh, tu diresti che qualcuno abbia fatto lo Zio Tom… Ragazzo, feci giusto la mia routine. Era un classico. Dissi a Toby: “Non salirò mai più in macchina con te”. Il giorno dopo ero di nuovo nella stessa ignobile automobile.

SF: Poi il nucleo di quella che sarebbe diventata l’orchestra di Ellington si trasferì a New York?

Sonny-Greer-2SG: Fats Waller venne a vedermi. Aveva una band a quel tempo, ma i musicisti avevano iniziato una faida tra di loro e si erano ritirati. Fats dovette lasciare lì ed aprire a New York. Ero l’unico a Washington che conosceva. Mi fa: “Sonny, sono stato a Washington abbastanza. Ti piacerebbe andare a New York?”. Gli dico: “Yeah, sono pronto a tornare”. E lui: “Puoi metter su una band da bar?”. Rispondo “Yeah man. Quanti ne vuoi?”, “Cinque o sei”. Così presi Duke, Arthur Whetsol e Elmer Snowden. Quattro. Io e Duke andammo prima, Toby venne più tardi. La sua zietta viveva a New York e noi dormivamo nel suo appartamento. La prima sera portai Duke al Capitol Palace Cafe. Ci suonava Willie The Lion. The Lion mi aveva visto, ma non lo conoscevo bene. Così frequento The Lion e mi metto a parlare di brutto su di lui. Gli dico: “Lion, vecchio mio, voglio presentarti il numero uno, il mio amico Duke, di Washington”. Dice: “Siediti, ragazzo” ed io: “è un pianista, Lion”. Duke non aveva mai visto nessuno come quello. Aveva sentito parlare di lui, così Lion iniziò a suonare. Aveva una sommaria band e come suonavano, man! Dopo un po’ Lion dice a Duke: “Ehi, ragazzo, suona qualcosa per me. Fammi sentire”. Duke si mette lì e suona “Carolina Shout” proprio come James P. Johnson. Lion fa: “mi piace”. Una sera James P. venne nel caffè. Lion disse a Duke. “Suona quella roba di nuovo”, così Duke suonò la stessa cosa che James P. aveva suonato sul rullo di pianola! E James P. disse: “Oh yeah. Mi piace”. Da quel momento in poi fummo molto intimi.

SF: Quando ascolto le prime registrazioni di te con Elmer Snowden, molte delle cose che suoni con le spazzole sono all’unisono con il ritmo del banjo. Era qualcosa che facevi consapevolmente?

SG: No. Entrambi ascoltavamo il piano. Il piano era predominante. Ascoltavamo sempre quello. Il bassista? Non dovevamo mai ascoltarlo. Anche lui ascoltava il piano, perché i pianisti fanno così tanti cambi [di ritmo] differenti. Il pianista sta nel mezzo di tutto. Tutti i pianisti sono pazzi. Devi sapere questo. Puoi anche darmi mille dollari e non riuscirei a dirti cosa Brooks sta per suonare. Neanche lui sa cosa sta per suonare. Nessun pianista lo sa. Suonano come si sentono di suonare. Nessun pianista al mondo va avanti con un pattern stabilito. Non mi interessa chi è. Non suonano mai la stessa cosa due volte. Il migliore al mondo neanche lo fa.

SF: Beh, neanche i migliori batteristi, giusto? Tu non suonavi niente allo stesso modo.

SG: No. Devi essere sempre sveglio. Quando io, Brooks e Russell Procope suonavamo al Gregory’s di New York, man, suonavamo tanta di quella roba. I ragazzi non ci credevano! Pensavano che fosse tutta roba nuova. I ragazzi normali pensavano che fosse roba nuova, man. Ma non era niente di nuovo! Erano le stesse cose che suonavamo molti anni fa. Iniziammo lì per suonare per due settimane e ci rimanemmo quasi quattro anni. Quel piccolo vecchio posto era affollato, pieno zeppo. Non riuscivi neanche a camminare, dal lunedì alla domenica, con la pioggia o col sole. Man, quel posto non è mai più stato così.

SF: Devi sentirti alla grande a suonare ancora, no?

SG: Oh yeah. Sai una cosa divertente? Su al West End Cafe il lunedì sera quel dannato posto diventa sempre più grande. Quella è la peggior serata della settimana. Nessun locale fa soldi il lunedì. Ti volti e la prima cosa che vedi è un sacco di gente, e sta lì proprio per me e Brooks. È tosto. A volte abbiamo portato pure un contrabbassista strepitoso: Aaron Bell. È bravo. Insegna in qualche college in New Jersey.

SF: Quali batteristi ascoltavi quando tu emergesti? Andavi mai a guardare dei batteristi che ti eccitavano?

SG: No.

SF: Mai? Non hai mai visto Chick Webb o…

SG: Chick era un buon amico mio e di Duke. Mi piaceva. Tutti quei ragazzi suonavano. A quel tempo o lo dimostravi o tacevi. Non c’erano vie di mezzo. O eri bravo o te lo potevi scordare. C’erano così tanti batteristi che suonavano. Veri artisti. Kaiser Marshall era un grande batterista. Walter Johnson era un mio buon amico. Era un bel tipo. Veniva spesso al Gregory’s prima che si ammalasse di brutto.

Man, noi non avevamo sere libere! Non avevamo tempo di fare visita a nessuno. Se mi ci imbattevo, bene, altrimenti scordatelo. Eravamo così impegnati che non avevamo tempo. Lavoravamo tutte le sere incluso il lunedì e la domenica. Nessuna sera libera. Man, capitava che il Cotton Club si prendeva un intero show e la band per un concerto di beneficenza in un hotel. Ne facevamo almeno uno a sera. Il Cotton Club era il posto. Roba d’alto livello. Tutti quei ricchi di downtown vivevano al Cotton Club. Se venivi a New York e non andavi al Cotton Club, non avevi visto New York. Si pensava che Harlem fosse il paradiso. E lo era! Chiunque di downtown veniva su e se ne andava ovunque, a qualsiasi ora della notte. Non si sentiva mai parlare di aggressioni e quella roba là. Era bellissimo.

SF: Sonny, puoi darci un’idea di com’erano quei locali che vendevano alcol di contrabbando?

SG: Oh sì. Cantavo con la band. Man, Leo Bernstein, il nostro manager, faceva così tanti soldi e si ubriacava così tanto che per poco non mi dava il registratore di cassa. Sapevo quando era ubriaco. Tutto ciò che dovevo fare era cantare “My Buddy” e potevo prendere qualsiasi cosa al mondo! Così Fats Waller stava suonando il piano per il maestro di cerimonie dello show, Bert Howell. Duke non stava suonando il piano. Così io e Fats andammo su e facemmo un po’ di intrattenimento, cantando quelle canzoni un po’ spinte. Facemmo così tanti soldi con le mance, che Duke rimase con gli occhi fuori dalle orbite! “Ehi, man, suonerò io il piano”. Dissi: “No, no. L’abbiamo preso io e Fats”. Avevamo 7 o 8 ragazze che Leo Bernstein aveva assunto come hostess, ma stavano lì per gli addii al celibato. Così, man, non si sedevano con nessuno finché le loro tasche non erano a posto, mi capisci? Così noi ci voltammo verso il piano dove loro si sarebbero sedute. Fu il primo posto in cui facemmo centro. Man, il tizio ci voleva dare 2 dollari. La ragazza gridò: “Cosa ci fanno con 2 dollari? Non ci fanno niente!”. Così il tizio provò a impressionare le ragazze, fece colpo, e noi gli mettemmo una di quelle belle. Ma quando Leo Bernstein era ubriaco, dissi: “Le notti sono lunghe finché ci siamo noi, my Buddy”. Man, quello iniziò a piangere e si mise le mani in tasca. Io e Fats dicemmo: “Ce l’abbiamo fatta, ce l’abbiamo fatta!”. Era l’epoca del proibizionismo e si suppone che non si vendesse whiskey. Le persone non potevano prendere alcun whiskey finché non mi vedevano, perché ricordavo le facce di tutta quella gente. Disse: “Sonny, quelli laggiù vogliono del whiskey. Li devo servire?”, Dissi: “Sì, sono a posto”.

BK: Sonny era l’osservatore.

SG: E non ho mai fatto un errore.

BK: E quando gli agenti federali facevano irruzione, quel posto si trasformava in una chiesa e Sonny veniva fuori dicendo: “Non serviamo niente se non vino. Questa è una chiesa”.

SF: Come facevi a sapere quando gli agenti federali avrebbero fatto irruzione?

BK: Il campanello. Era un seminterrato.

SG: Avevamo un portiere di nome Slim che riusciva a fiutarne uno lontano un miglio. Slim si sbrigava a suonare il campanello. Non appena il campanello suonava, diventava un locale diverso, man. In un minuto tutti i pannelli venivano rigirati e l’intero posto assumeva un’atmosfera differente.

SF: Durante l’epoca delle big band, le band suonavano per i ballerini, giusto? Non era come suonare per dei “musicisti”?

SG: Noi non avemmo mai un ruolo nel suonare per i musicisti. Se capitava che erano lì… erano lì! Ma suonare direttamente per loro? Non lo facemmo mai. Quando Fletcher Henderson era al Roseland Ballroom, lui suonava per i ballerini. Benny Goodman pure. Ricordo che veniva ospitata una guest band ogni settimana al Savoy Ballroom. Tutte le big band ci andarono, ma la band di Chick Webb le faceva tutte fuori. Così un giorno arrivò il nostro turno.

Chick aveva dei ragazzi così forti. Noi suonavamo all’Apollo Theater la settimana prima di andare a suonare contro Chick. Così tutti accorrevano all’Apollo a dire “Man, nessuno ha mai fatto fuori Duke, ma Chick può riuscirci perché è tutta la settimana che provano”. Duke semplicemente rideva. Non gli dava peso. Noi non provammo. Semplicemente suonammo nello show. Noi non avevamo tempo di provare alcuna band. Chick aprì. Il posto era affollato, poiché Chick era di casa al Savoy. I suoi ragazzi ebbero una grande ovazione. Noi ci mettemmo dietro ad ascoltare.

BK: Se una band finiva su un accordo di Do settima, Duke sapeva abbastanza bene come risolvere il successivo accordo più alto per l’inizio del loro primo pezzo. Ad esempio, se Chick finiva su un accordo di Do maggiore, Duke partiva da un Do maggiore a un Do settima a un accordo di Fa. Non solo lo risolveva… lo tirava su. Così, aveva un effetto che sollevava chi ascoltava.

SG: Salimmo sul palco e Duke suonò un po’ il piano – giusto io e lui fino a quando lanciava le ultime quattro battute – finché suonava la tonica e noi sapevamo cosa avremmo dovuto suonare! Aprimmo con “Rockin’ In Rhythm”. Le persone si alzarono e applaudirono. La gente non ballava! Si misero intorno al palco. Riprendemmo dove Chick aveva lasciato e andammo sempre più in alto. Chick scuoteva la testa. “Perché devi suonare tutta quella musica fin lì?”. Il tipo che ci aveva scritturato lì disse “Chick, suppongo che suonerai meglio i valzer ora”.

Ma Duke ed io andavamo pazzi per Chick. Ed egli andava pazzo per Duke. Chick chiese: “Duke, l’hai fatto per me?” Duke disse: “Man, abbiamo solo suonato per una serata, questo è tutto”. Poi tornammo al Cotton Club dove li demolimmo di nuovo.

Sonny-Greer-3Sonny Greer fa comparire una foto di un enorme drumset. Il set era così impressionante che ne fu fatta una menzione speciale nel libro di Jim Haskin, The Cotton Club: “Greer e le sue percussioni fornivano il fuoco della musica della band (di Ellington). Aveva un’incredibile batteria di percussioni, ogni cosa, dai tom, ai rullanti ai timpani e una volta appurato che la band sarebbe rimasta per un po’ in un club, si portava davvero bella roba. Sonny più tardi ricordò: ‘Quando prendemmo il lavoro al Cotton Club, divenne molto importante come ci presentavamo. Ero un designer per la Leedy Manufacturing Company di Elkhart, in Indiana, e il presidente della compagnia aveva un favoloso set di batteria fatto per me, con timpani, campane tubolari, vibrafono, ogni cosa. I musicisti venivano al Cotton Club solo per vederlo. Il valore era di tremila dollari, molti soldi per l’epoca, ma divenne un’ossessione con i malviventi, che facevano pressione sulle band per avere batterie come la mia e spesso anticipavano soldi per essa’. Con un tale equipaggiamento, Greer, poteva produrre ogni possibile suono di tamburo, e al Cotton Club impressionava i clienti, facendo comparire come per magia guerrieri tribali, le tigri mangiatrici di uomini e i danzatori di guerra. Ma i suoi ritmi erano solamente il fuoco del suono della band”.

SG: Il mio cameriere personale faceva splendere la mia batteria come oro. I tamburi avevano i cerchi e i blocchetti cromati eccetto per i piatti e i gong che erano dorati. Il cameriere li teneva luccicanti come diamanti. Molto costoso.

SF: Avevi disegnato tu quel set?

SG: Sì. Normalmente i batteristi non usavano tutta quella roba. Io avevo ogni cosa. Timpani, vibrafono, campane tubolari e altri tamburi. Usavo il vibrafono solamente per degli accordi sotto i cantanti. Non sono Lionel Hampton. A Duke piaceva venire lì e suonarli tutto il tempo. Io disegnai molti tamburi per Leedy. Quando uscì il primo timpano a pedale, io aiutai a disegnarlo. Molti rullanti, tom e differenti idee sulle spazzole e una linea di piatti.

SF: Leedy costruiva i propri piatti?

SG: No. Zildjian a Boston. Gli diedi molte idee. Molti pochi batteristi lo sanno, ma puoi riconoscere un buon piatto dalla campana. Se la campana non è troppo a punta – più piatta – avrà un suono migliore.

SF: Eri solito smorzare i piatti per gli accenti.

SG: Oh sì. Man, è passato così tanto tempo che me ne sono dimenticato. Era solo qualcosa che facevo, tutto qui.

SF: Riuscivi ad usare il tuo set Leedy in studio di registrazione?

SG: No. C’era sempre un set di batteria nello studio di registrazione. Se volevo qualcosa di speciale prendevo la mia roba. Ma c’era sempre un tecnico che era molto preciso. Voleva che ogni cosa fosse perfetta. Non è come si sente ora. Alcune di queste persone d’oggi non suonano. Senti dei gatti di campagna, man, non stanno suonando! Non sono capaci a cantare, non suonano. Sono patetici.

BK: Sonny aveva un cameriere di nome Jonesy che intonava sempre la cassa di Sonny in SOL.

SG: Sempre. Ne sapeva più sulla mia batteria di quanto non ne sapessi io. Ragazzo, era qualcos’altro. Lui e Ivy Anderson non andavano mai d’accordo. Non erano nemici – erano amici. Ogni volta che lei voleva qualcosa non voleva che nessuno andasse se non Jonesy, e Jonesy non le dava mai il resto. Lei dava a Jonesy venti dollari per del pollo arrosto o qualcos’altro e diceva “Jonesy, dammi il resto” e lui rispondeva “Non c’è resto”. Lei perdeva la testa! Ivy si infervorava, man. Jonesy non dava mai il resto a Duke, non dava mai il resto a me.

Una volta un tizio diede in regalo a Duke una delle più belle fisarmoniche. La tenevano nel bagagliaio. Viaggiavamo sempre col nostro proprio pullman. Jonesy vide la fisarmonica e la vendette! Qualche settimana dopo Duke disse “Jonesy, prendi la mia fisarmonica” e Jonesy rispose: “Man, non riesco a trovarla da nessuna parte”. L’aveva venduta! Era un personaggio. Era stato un fattorino del Cotton Club ed era così simpatico che Duke gli chiese “Ti piacerebbe venire in viaggio con noi?” e lui disse “Yeah”. Così lo prendemmo con noi. Era un grande. Faceva qualsiasi cosa per essere in un certo posto ad una certa ora. Lui ed io eravamo i primi in teatro. Quando la band arrivava noi avevamo messo su l’intero set. Tutto. Tutti i camerini erano spenti. Potevi fidarti ciecamente di Jonesy. Non lasciava toccare la batteria da nessuno. La conosceva a menadito.

SF: È vero che usavi le pelli dei timpani sulla tua cassa della batteria?

SG: Sì.

BK: Era così che si accordava con il bassista. Il bassista prendeva un Si e Sonny un Sol sulla cassa ed erano in perfetta armonia. O un Re in armonia col Sol. Blanton prendeva sempre un Re.

SG: Fu mia l’idea di usare le pelli dei timpani e Duke pensò all’idea di intonarle. Fui il primo a provare l’hi-hat. Leedy costruì il primo hi-hat ed essi mi inviarono uno degli originali. Lo usai al Kentucky Club.

BK: Lo inviarono lo stesso giorno a Chick Webb e a Chick non piacque! Sonny, chi fu il primo batterista che hai mai ascoltato suonare il ritmo jazz sul piatto ride?

SG: Penso fu Kaiser Marshall quando era con la band di Fletcher Henderson.

SF: C’era un certo legame tra i batteristi degli anni Trenta e Quaranta?

SG: Eravamo tutti amici. Amici stretti. Socializzavamo. I musicisti erano tutti più intimi in quell’epoca. Tutti andavano a visitare tutti e ci si frequentava. Oggi è un’atmosfera diversa. I ragazzi? Non puoi dirgli niente oggi. O agisci o taci. Se tentennavi passavi brutti momenti. Ma se tu suonavi bene, ti venivano a vedere. Ti dicevano se eri in grado di suonare. Era un piacere essere circondato da ragazzi come quelli perché c’era molto affiatamento. Mi chiamavano “The Sweet Singing Drummer”. Ragazzo, io avevo più gente che mi odiava.

SF: Perché?Sonny-Greer-4

SG: Perché venivamo trasmessi alla radio da costa a costa ogni settimana. Cantavo con la band e avevamo un po’ dei migliori annunciatori del giro. Man, suonavamo tutti i migliori pezzi in un’ora. Se eri uno che lavorava dopo le sette di sera… beh, nessuna preparava la cena per il proprio marito! I mariti lavoravano tutto il giorno ed odiavano la nostra band. Dalle sei alle sette ogni cosa si fermava. Se non avevi mangiato prima del nostro show, ti diceva male.

SF: Quando l’orchestra lavorava sui brani musicali, come affrontavi gli arrangiamenti? C’erano molte prove di preavviso per eseguire le canzoni?

SG: Eravamo l’unica band che non suonò mai lo stesso concerto alla Carnegie Hall due volte. Duke scriveva musica appositamente per esso. Ogni concerto che facevamo, suonavamo pezzi diversi. Non venivi lì per ascoltare “Oh, Susanna” o una di quelle canzoni trite e ritrite. Avevamo musica nuova di zecca per ogni concerto alla Carnegie Hall e noi ci suonavamo ogni anno. Per noi ogni giorno era un nuovo giorno e una nuova sfida.

SF: Usavi degli spartiti per la batteria per gli show nei club?

SG: No, man. Suonavamo come ci sentivamo di suonare, proprio come facciamo adesso.

SF: Quando hai conosciuto per la prima volta Jo Jones?

SG: Jo era all’Ovest nel 1936. Era il mio number one. Era diverso da tutti. Lo vidi con Basie a Kansas City da qualche parte, con la band di Bennie Moten. Mi piaceva proprio Jo. Era lo stesso Jo Jones che conosci ora. Mi chiama “Mr. Empire State Building”. Un Natale trovò il più vecchio paio di scarpe che potesse trovare, le impacchettò e disse: “È il tuo regalo di Natale. Mi è costato molto”. Man, doveva aver posseduto quelle scarpe un migliaio di anni! Erano impacchettate tutte per bene, man. Le lanciai nella pattumiera. La volta successiva che lo vidi glielo dissi: “Sonny, parlami del regalo di Natale che ti ho dato!”

SF: Mentre la batteria progrediva per tutti gli anni ’30, ’40 e ’50 con gente come Jo Jones a seguire, ti piaceva cosa stava succedendo?

SG: Beh, Jo Jones suonava come suona ora. Non ha cambiato mai il suo modo di suonare. Non che io sappia, e l’ho visto molte volte.

BK: E di Davey Tough che dici?

SG: Beh, quando Davey uscì dalla Marina, stava suonando al Chicago Theater e si fermò a Chicago e trovò un hotel dove fermarsi. Il direttore mi chiamò e disse: “C’è un ragazzo qui che si è appena congedato dalla Marina, il suo nome è Davey Tough. Ha detto che è un tuo buon amico. Lo lascio salire in camera?” Gli dico: “Certo. Dagli ciò che vuole”. Era mezzo malato. Fu l’ultima volta che lo vidi. Un bel tipo. Bravo batterista. Era uno di quelli bravi. Non solo a suonare, intendo come persona. Era un grande. Non pensavo che fosse così malato. Morì poco dopo che tornò a casa.

SF: Hai avuto occasione di vedere gente come Kenny Clarke al Minton’s, e Max [Roach]e Art Blakey?

SG: No. Vedi, quando finivo un lavoro, poi non andavo mai da nessuna parte. La gente diceva sempre: “Passa qui”. Ma erano per lo più musicisti di strumenti a fiato che andavano in quei posti. I veri batteristi e bassisti evitavano quei posti perché ogni volta che andavano lì, c’era qualcuno che voleva che si mettessero a suonare, per accompagnare qualcuno.

BK: E ti tocca suonare 99 milioni di chorus di “I’ve Got Rhythm” per accompagnare qualcuno.

SG: Non ci andavo mai.

Una volta stavamo suonando allo Stanley Theater di Pittsburgh. Scendo dal palco e mi trovo un ragazzino che mi dice: “Signore, hai una pelle di tamburo?”, risposi “Yeah”. Mi sono sempre piaciuti i bambini. Così lo portai dietro le quinte e gli diedi un intero tamburo. Mi dimenticai di questa cosa. Anni dopo, un gruppo di batteristi stava chiacchierando giù a Broadway e un batterista dice: “Ti ricordi quella volta che tu mi hai dato un tamburo? Io sono il bambino che venne nel backstage e tu gli regalasti il tamburo”. Era Art Blakey.

SF: Cosa c’è in programma per te e Brooks? Sheila stava parlando di un disco.

BK: Non solo quello, ma lei sta provando ad organizzare due o tre settimane per Sonny e me. Esclusiva.

SF: Il libro di Sonny è certo?

BK: Sì. Non uscirà prima del 1982. Sonny lo sta scrivendo. Il titolo provvisorio è I Wax There.

SG: È proprio l’opposto di Music Is My Mistress di Duke. Sono successe così tante belle cose.

SF: Ascolti ancora musica, Sonny?

SG: Sono andato a vedere Sophisticated Ladies[4]. La band era molto buona. Hanno reso il palco come il caffè del Cotton Club. Bellissima illuminazione. I canti e i balli erano la fine del mondo. Duke sarebbe stato orgoglioso di ciò.

SF: Ascolti più i batteristi?

SG: Non faccio caso a cosa fanno.

SF: Con quale set stai suonando al West End?

SG: Leedy. Quella batteria è l’ultimo set prima che Leedy vendette a Ludwig. Dovrei rifarla perché molti specchi si stanno staccando.

SF: Come hai imparato a suonare con le spazzole?

SG: Non importa quanti soldi mi hanno offerto, è una domanda a cui non posso rispondere. Era più facile suonare con le spazzole che con le bacchette. Molto più facile!

SF: Vuoi dire qualcosa per concludere?

SG: Non ho mai deluso i ragazzi della band. Potevamo prendere un sostituto per un sassofono, una tromba o un trombone, ma Duke ed io eravamo indispensabili. Mia madre morì quando stavamo lavorando al Lafayette Theater. Dissi: “Duke, non voglio andare” e lui disse “Tu devi andare”. Duke era solito chiamare mia madre “mama”. Sai chi mi sostituì? Kaiser Marshall. Ma non su la stessa cosa. Il mio unico rimpianto è che mia madre e mio padre non mi videro mai suonare.

© Copyright 1981 Modern Drummer Publications, Inc. Used by Permission.

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[1] Articolo del 1981 (l’anno prima della morte di Sonny Greer), pubblicato sulla rivista Modern Drummer con il titolo Sonny Greer: The Elder Statesman Of Jazz
[2] Chester Monson Brooks Joseph Kerr III (26 dicembre 1951 – 28 aprile 2018) è stato un pianista jazz, conosciuto anche per essere un profondo conoscitore della musica e della vita di Duke Ellington, al quale dedicò degli album (come “Soda Fountain Rag – The Music of Duke Ellington” e “Brooks Kerr Salutes Duke Ellington”). Alla fine degli anni ’70 formò un trio con gli ellingtoniani Sonny Greer e Russell Procope, con i quali si esibì regolarmente. Di lui si diceva “He Knows More Ellington Than Duke Himself
[3] Nel periodo 1935-1938, Ellington utilizzò nella sua orchestra due contrabbassisti: Hayes Alvis e Billy Taylor Sr.
[4] Sophisticated Ladies fu un musical dedicato alla vita di Duke Ellington, che esordì a Broadway al Lunt-Fontanne Theatre il 1 marzo 1981 e terminò il 2 gennaio 1983, dopo 767 recite e quindici anteprime. Il musical fu concepito da Donald McKayle, diretto da Michael Smuin, con la coreografia di McKayle, Smuin, Henry LeTang, Bruce Heath, e Mercedes Ellington, scenografia di Tony Walton, costumi di Willa Kim e luci di Jennifer Tipton. Il cast originale includeva Gregory Hines, Judith Jamison, Phyllis Hyman, Hinton Battle, Gregg Burge e Mercer Ellington al quale si aggiunse in corsa il fratello maggiore di Hines, Maurice.

Billy Strayhorn. La libertà di amare

Nato il 29 novembre 1915, Billy Strayhorn viene considerato, a buon titolo, un genio del jazz e della popular music del XX secolo. Brani come Take The ‘A’ Train, Chelsea Bridge o Lush Life sono diventati patrimonio di ogni buon musicista o cantante jazz che si rispetti. Svolse però la sua attività quasi sempre da dietro le quinte, senza che il suo nome fosse di pubblico dominio e spesso all’ombra dell’ingombrante amico, mentore e protettore Duke Ellington.
Il suo innato talento e il raffinato gusto lo contraddistinsero durante tutta la vita e gli valsero l’affetto e l’ammirazione dei musicisti di tutto l’ambiente del jazz; cosa non scontata, non solo perché non fu mai una personalità di spicco e al centro della scena musicale, ma perché fu uno dei casi più unici che rari, nella storia del jazz, di un musicista dichiaratamente omosessuale (ambiente, ricordiamolo, piuttosto omofobo, soprattutto nella comunità nera).
Cresciuto in una famiglia con un padre violento che segnò profondamente la sua vita, intraprese gli studi musicali con buoni risultati. Ancora adolescente scrisse Lush Life, una canzone con delle armonie molto sofisticate e un testo raffinato destinata ad essere considerata, molti anni dopo, come una delle canzoni più belle di sempre.

Billy Strayhorn accompagna al pianoforte Kay Davis durante un concerto di Duke Ellington alla Carnegie Hall nel 1948

Quando Ellington lo conobbe nel dicembre 1938, riconobbe subito il talento di quel giovane musicista di Pittsburgh e lo prese sotto la sua ala protettrice. Lo ospitò a casa sua, chiedendo alla sorella Ruth e al figlio Mercer di prendersene cura mentre se ne andava per una delle sue lunghe tournée con la sua orchestra. Fu così che in qualche modo gli Ellington adottarono il giovane musicista. Incaricato dal Duca inizialmente come paroliere dei suoi brani, si fece ben presto notare come arrangiatore e compositore originale. Parte del grande successo di Duke Ellington dai primissimi anni ’40 fino ai ’60 è senza dubbio da attribuire all’enorme contributo di Strayhorn. Ellington riconobbe sempre l’importanza del suo fidato amico e adottò il suo brano d’esordio scritto per l’orchestra, Take The ‘A’ Train, come sigla d’apertura dei suoi concerti. Di lui scrisse: “Billy Strayhorn era il mio braccio destro, quello sinistro, gli occhi che avevo dietro la testa; le mie onde cerebrali viaggiavano nel suo cervello, e le sue nel mio.”

Billy Strayhorn in una rara apparizione in pubblico con la sua Take The ‘A’ Train

Sebbene recenti ricerche abbiano dimostrato che i due musicisti componessero in realtà separatamente ed avessero tratti stilistici differenti, Ellington e Strayhorn si divertivano a confondere il pubblico su chi avesse composto cosa.

Oltre ad essere un raffinato compositore ed un buon pianista, Billy Strayhorn era anche un ballerino di tip-tap e fu co-fondatore dei Copasetics, un gruppo di ballerini devoto alla divulgazione e all’organizzazione di eventi di tap dance.

Prestò il suo attivismo anche nell’ambito delle lotte per i diritti civili dei neri. In particolare, come il suo amico Ellington, era molto in sintonia con le idee di Martin Luther King, del quale nutriva profonda stima.
Lo troviamo così ad arrangiare e dirigere uno dei brani con il testo più sfacciatamente agguerrito che Ellington abbia mai scritto, all’interno dello spettacolo My People. Dedicato al reverendo King e ai tragici fatti di cronaca di Birmingham, in Alabama, e parafrasando il celeberrimo spiritual Joshua Fit The Battle of Jericho, il brano King Fit The Battle of Alabam è un grido di rabbia contro la repressione violenta della polizia nei confronti dei manifestanti.

“King Fit The Battle of Alabam” da “My People”

Billy Strayhorn ebbe due grandi amori, il primo dei quali fu il pianista Aaron Bridgers, con cui rimase insieme finché quest’ultimo si traferì a Parigi. L’altro fu il compagno Bill Grove, che gli rimase vicino negli ultimi anni. Ebbe però un altro rapporto davvero speciale: quello con la cantante e attrice Lena Horne. La promosse, la incoraggiò e la aiutò nella sua carriera di cantante e donna di spettacolo. Lei ne era follemente innamorata ed era molto gelosa del suo intimo amico. Gli chiese addirittura di sposarla, nonostante sapesse che l’amore non era corrisposto (per lo meno un certo tipo di amore). Successe poi che Lena Horne si sposò sul serio, con un altro uomo. Non solo si consultò prima con Billy, ma impose al futuro marito di far vivere Billy con loro, nella stessa dimora. Fu così che Billy Strayhorn venne adottato una seconda volta, ma questa volta dalla sua protetta e intima amica.

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Il 26 dicembre del 1965 ebbe luogo un grande evento nella Fifth Avenue Presbyterian Church di New York. Duke Ellington eseguì il suo Concert of Sacred Music. Tra un brano e l’altro Ellington lasciò spazio a Strayhorn, il quale si sedette al pianoforte per accompagnare Lena Horne in una sua nuova canzone, il cui testo fu scritto per l’occasione dal Reverendo C. Julian Bartlett. Quella fu l’ultima esibizione in pubblico di Strayhorn.

A Christmas Surprise, da “A Concert of Sacred Music”

Strayhorn continuò a collaborare, seppur con meno frequenza, con Ellington, ma quella fu la sua ultima apparizione in pubblico. Di lì a breve, la vita di Strayhorn fu tutta in salita: gli ultimi anni la malinconia prese il sopravvento e l’alcool divenne il suo rifugio. Morì neanche due anni dopo, il 31 maggio 1967, per un cancro all’esofago.

Pochi mesi dopo, Duke Ellington volle dedicare al fraterno amico un album interamente di sue composizioni, “…And His Mother Called Him Bill”. Finita la seduta di registrazione, i musicisti dell’orchestra stavano mettendo a posto i loro strumenti quando Ellington si sedette al pianoforte e iniziò a suonare Lotus Blossom. Fortunatamente i microfoni erano rimasti accesi e la commossa esecuzione fu talmente intensa che la RCA decise di inserire nell’album proprio quella esecuzione fuori programma.

Nel bel mezzo del suo Secondo Concerto Sacro del 1968, Duke Ellington volle ricordare le Quattro Libertà con cui visse Strayhorn durante la sua vita:

Libertà dall’odio, incondizionatamente
Libertà dall’autocommiserazione
Libertà dalla paura di poter fare qualcosa che aiuterebbe qualcun altro più che lui stesso
Libertà da quel genere di orgoglio che fa pensare a un uomo di essere migliore del suo fratello o del suo prossimo

Riding on Duke’s Train

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Nella mole non indifferente di testi riguardanti Duke Ellington, difficilmente si riesce ad immaginare che possa esserci spazio per della letteratura di carattere diverso dalla saggistica o delle (auto)biografie. Eppure c’è qualcuno che ha pensato di scrivere sull’argomento un romanzo per ragazzi, che fa immergere immediatamente il lettore nel mondo di Ellingtonia.

Mick Carlon insegna inglese nelle scuole medie e superiori ed ha una grande passione per il jazz. Il connubio di queste due attitudini si è così tradotto in Riding on Duke’s Train, romanzo che si legge in un pomeriggio, dalla scrittura veloce e coinvolgente. È la storia di Danny, un bambino di appena nove anni rimasto da poco orfano, che si intrufola su un treno in una notte del 1937 in Georgia. Destino vuole che quello è il treno di Duke Ellington e della sua Famosa Orchestra, che porterà il ragazzo a Harlem e poi in tournée in Europa. Il racconto è inventato, ma le vicende che si susseguono sono assolutamente fedeli a ciò che vissero Duke Ellington ed i suoi uomini alla fine degli anni ’30 ed è ricco di dettagliate situazioni in cui si trovarono i nostri eroi, come quando rimasero per breve tempo ostaggi nella Germania nazista, mentre la attraversavano in treno dai Paesi Bassi alla Danimarca, durante la tournée europea del 1939. Le vicende sono raccontate attraverso gli occhi di Danny che, da facchino/tuttofare dell’orchestra, ci racconta le personalità ed i caratteri di personaggi come Rex Stewart, Cootie Williams, Sonny Greer, Ivie Anderson e dello stesso Duke Ellington, che lo adotterà nella sua famiglia.

È un libro per ragazzi, dicevamo, ma è un romanzo adatto anche agli adulti curiosi di conoscere ed addentrarsi nel mondo e nella musica di Duke Ellington. Vale la pena, a questo punto, leggere cosa ha detto il celebre storico del jazz Nat Hentoff a proposito di questo libro e del suo autore: “Ho conosciuto Duke Ellington per 25 anni. Duke fu il mio mentore. L’Ellington in questo libro è l’uomo che ho conosciuto”. Ed ancora: “Duke era solito dire che il suono individuale di un musicista rivelava la sua anima. Mick Carlon è uno storyteller dell’anima”.

Dal libro ne è nata una sceneggiatura per un film, scritta dallo stesso autore insieme a Ken Kimmelman che ha già vinto numerosi riconoscimenti come il Primo Premio all’ Harlem International Film Festival di New York; Primo Premio al Socially Relevant Film Festival di New York; Primo Premio al Copenhagen Film Festival; Primo Premio al Largo Film Festival (Svizzera) ed è attualmente finalista al Berlin Film Festival.

Purtroppo, nonostante l’ottimo riscontro di pubblico, attualmente Riding on Duke’s Train è stato pubblicato solamente in lingua inglese. Aspettiamo fiduciosi un’edizione italiana!

Titolo: Riding on Duke’s Train
Autore: Mick Carlon
Editore: Leapfrog Press
Prima edizione: 2012
ISBN: 978-1-935248-06-4

 

Candice Hoyes: On a Turquoise Cloud

Candice Hoyes

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“Questo album è un sogno che si è avverato poiché questo gruppo di devoti ed impeccabili artisti ha scelto di sostenerlo.”

È la stessa Candice Hoyes, di cui andiamo a commentare questo album del 2015, ad usare queste parole nelle note di copertina. Ed ascoltando questo disco, la sensazione è proprio di immergersi in un sogno fatto di atmosfere estatiche e tinte turchesi.

Candice Hoyes è un soprano dal timbro che non passa di certo inosservato: è caldo, pulito, avvolgente. Forse non rapisce subito, ma sa distillare vibrazioni positive mano a mano che la si ascolta, come il sapore lasciato in bocca da una buona grappa barricata.

L’album è un sincero e convincente tributo alla musica di Ellington e soprattutto ad alcune delle sue cantanti più significative. I brani selezionati per questo album non sono mai banali ed è chiaro come siano il frutto di una attenta ricerca e cura. Non a caso, la cantante si premura di ringraziare nel booklet lo staff dello Smithsonian Institution che possiede e preserva buona parte dell’eredità ellingtoniana. Ed è senza dubbio un lavoro di sinergia ed interazione, cosa facilmente riscontrabile dal lavoro sugli arrangiamenti fatto un po’ da tutti i musicisti che hanno contribuito a questo album. Gli arrangiamenti, appunto, sono tutti di spessore e perfettamente concepiti per questa formazione e cuciti intorno alla voce e alla personalità della cantante. Tutto ciò può essere riassunto nel sottotitolo dell’album che recita: Rare Ellington Songs for Soprano & Octet.

Candice Hoyes si presenta subito come virtuale erede di quella Kay Davis che negli anni ’40 incise dei capolavori assoluti nella discografia di Duke Ellington e che la vedevano impegnata, con la sua voce impostata, come timbro puro, priva di testi, al pari di un qualsiasi altro strumento musicale, in brani come On a Turquoise Cloud, Transblucency e Violet Blue che la Hoyes ha riesumato per riportarli a nuovo splendore. C’è però da osservare che in queste particolari composizioni la voce della Hoyes non riesce ad amalgamarsi perfettamente con i timbri degli altri strumenti, ma spicca quasi come una voce solista, cosa che fa perdere gran parte del fascino di queste composizioni.
Altra canzone, un tempo appannaggio della Davis , è la poco nota Brown Penny, qui interpretata senza ampollosità a vantaggio della scorrevolezza della melodia.

Ma il tributo che Candice Hoyes fa alle voci ellingtoniane non si limita a Kay Davis. La vediamo infatti a suo agio nell’interpretare, seppure dandone una propria impronta, canzoni a suo tempo scritte per Alice Babs e Adelaide Hall. Del repertorio della prima appartengono Heaven, Almighty God e Far Away Star. Quest’ultima, composta da Nils Lindberg per la Babs, non solo mostra un eccellente arrangiamento ad opera del sassofonista Ted Nash, ma è anche una vetrina per i musicisti che nelle altre tracce si limitano ad accompagnare la cantante e che qui invece si esprimono in begli assoli. Al repertorio di Adelaide Hall invece appartengono Blues I Love To Sing – in cui mette in risalto anche le vocalità più rauche e viscerali –, Creole Love Call – a cui, oltre alla celebre risposta alle ance, aggiunge personalmente delle liriche al tema – e la spensierata Baby di Jimmy McHugh e Dorothy Fields.

Vi è poi Come Sunday, cantata da Mahalia Jackson nel 1958. Il famoso tema spiritual – in origine concepito all’interno della suite Black, Brown and Beige – è talmente bello nella sua semplicità, che giustamente la nuova interprete non aggiunge nulla di nuovo, ma si limita a cantare la melodia.

Un discorso a parte va fatto per due brani interpretati da due ospiti speciali. Uno è A Single Petal of a Rose interpretato dal caldo clarinetto basso del leggendario Joe Temperly. Suo personale cavallo di battaglia, questo brano viene eseguito inizialmente quasi a cappella da Temperly: la sua interpretazione è da pelle d’oca, con il vibrante timbro del clarinetto basso che si inerpica per i lunghi arpeggi della melodia. Ad esso segue la Hoyes, la quale, per l’occasione, ha aggiunto un testo alla toccante melodia.

L’altro special guest è il trombonista Wycliffe Gordon, il quale inizialmente espone il tema di Almighty God a campana aperta per poi mostrare tutta la sua maestria nell’uso della sordina plunger, nella miglior tradizione dei trombonisti ellingtoniani.

Candice Hoyes non dimentica di tributare in questo album anche il genio di Billy Strayhorn (di cui si è già ascoltata Violet Blue) chiudendo l’album con una toccante Thank You For Everything che altro non è che la versione provvista di liriche di Lotus Blossom, brano che negli ultimi anni della sua carriera Ellington era solito suonare a chiusura dei suoi concerti in memoria del suo amico scomparso.

Per concludere possiamo dire che On a Turquoise Cloud è un album assolutamente ricercato e curato nei minimi particolari. La voce della Hoyes può tuttavia non essere apprezzata da tutti per la particolarità del timbro e per la preponderante presenza della sua personalità. Ciò che però va detto è che questo album non può limitarsi ad un solo ascolto, perché la sua raffinatezza si deposita nell’animo dell’ascoltatore poco a poco, per poi gustarla appieno in un secondo momento.

Intervista ad Art Baron

Art Baron, all’anagrafe Arthur John Baron, è un trombonista jazz di New York che si unì all’orchestra di Duke Ellington negli ultimi mesi della sua esistenza. Ebbe il tempo di compiere l’ultimo grande tour internazionale dell’orchestra che toccò molti paesi in Europa ed Africa e partecipò alla prima mondiale del Third Sacred Concert, eseguito a Londra, nell’abbazia di Westminster. In seguito alla morte di Ellington, Art Baron continuò a far parte dell’orchestra ellingtoniana guidata dal figlio di Duke, Mercer Ellington. Oltre ad aver suonato con moltissimi musicisti jazz di fama mondiale come Buddy Rich, Illinois Jacquet, Mel Tormé, Joey DeFrancesco e con la Lincoln Center Jazz Orchestra, lo si è potuto ascoltare anche al fianco di artisti pop e rock come Bruce Springsteen, Lou Reed, Stevie Wonder e James Taylor.
Negli ultimi anni, ha fondato il gruppo The Duke’s Men con il quale reinterpreta la musica di Ellington.

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Ci mettiamo in contatto con Art Baron in videochiamata in una calda sera d’estate per una lunga e piacevole chiacchierata.[1]

Agostino Marzoli: So che hai iniziato nel 1973 la collaborazione con Duke Ellington… All’epoca molti musicisti dell’orchestra di Ellington furono ingaggiati dal figlio Mercer. Fu così anche per te?

Art Baron: La storia è questa: c’era un locale notturno in centro città che si chiamava The Rainbow Grill. Vi era, all’interno, un locale che si chiama The Rainbow Room, che ora è di nuovo lì. Non ricordo di preciso, comunque il Rainbow Grill si trovava nell’edificio dove si trovava la NBC. Duke aveva una piccola band lì. Di solito la sua band era composta da 15 o 16 elementi, ma lui aveva creato una piccola band che suonava dal martedì al sabato: giusto cinque sassofoni, forse una tromba, basso, batteria e Duke. Ma la domenica sera si riuniva l’intera band al completo: 5 sassofoni, 4 o 5 trombe, 3 tromboni… Avevano bisogno di avere la band al completo. La persona che sostituii, che se ne andò per dirigere una sua band, era Murray McEachern. Non sono mai riuscito a ringraziarlo poiché se ne era già andato… Così suonai il trombone lì per due domeniche. C’era un trombone basso, Chuck Connors, che ci suonava sin dagli anni ’60, ed un italiano, Vincenzo Prudente.

AM: Qual è stata la tua reazione quando hai scoperto di dover suonare con l’orchestra di Ellington?

AB: Te lo immagini? Avere 23 anni ed essere chiamato per suonare con Duke Ellington!

Non ho mai avuto dubbi… Ho sempre saputo che nella vita ci sarebbe stata buona musica, ma quello che è successo veramente… Nel 1971 fui ingaggiato da Steve Wonder per circa un anno e mezzo e cominciai ad andare in tour, e quando tornai a New York suonai molto in varie big band e gruppi jazz.

Insomma…  Ricevetti questa chiamata da una persona che mi piacerebbe ricordare, Mercer Ellington, il quale aveva bisogno di un trombone solo per due serate. Non avevo mai pensato di ottenerne di più e – sai cosa? – mi sarei accontentato comunque se avessi avuto solo queste due serate… Ma quando mi venne offerto di lavorare a tempo pieno, rimasi stupefatto!

C’era un mio caro amico, un fantastico trombettista… Suonava con Benny Goodman. E a un certo punto Mercer chiamò lui, Jimmy Maxwell – James Maxwell… Te lo ricordi il film Il Padrino? Ecco, era lui che suonava la tromba… Era un caro amico!
Mercer disse: “Jimmy, ho bisogno di un trombone” e Jimmy disse: “Chiama Art Baron!”
Conosci il trombonista Tricky Sam Nanton? Lavoravo con la sordina plunger da molto tempo, così Jimmy disse a Mercer, per scherzare: “Art Baron è più simile a Tricky Sam di Tricky Sam! È più simile all’originale dell’originale!” E fu così che Jimmy mi consigliò a Mercer: “Suona come Tricky Sam Nanton! Suona molto più lui come Tricky Sam che Tricky Sam stesso!”
Sì, ebbi una grande raccomandazione! Fu il numero uno!

AM: Com’è andato il primo incontro con Duke?

AB: Avevo ricevuto l’ingaggio per suonare due serate la domenica. Durante la seconda, eravamo a Boston, Massachusetts, e c’era un grande evento, il Boston Tea Party. Stavamo suonando all’esterno, era estate, la fine di agosto pressappoco. Stavo andando verso il palco a sistemare le cose, per iniziare, e mi sento chiamare da Duke: “Artie, torna indietro alla roulotte!”. Lui aveva una roulotte, un camerino su ruote! Era una roulotte di quelle grandi. Disse: “Vieni da me. Voglio parlarti a proposito di suonare con la mia band”. Pensai: “O mio Dio! Ho già avuto da Ellington due serate e adesso vuole che io faccia parte della sua band!” E così, dopo l’esibizione, andai verso la sua roulotte. C’era ogni tipo di cibo, di alcolici, forse della grappa e del buon vino! Lui mi disse: “Serviti da bere e prendi qualcosa da mangiare”! C’erano molte persone dentro la roulotte, forse una trentina. Non saprei dire di preciso, ma era comunque molto affollato! E così Duke mi disse: “Vuoi entrare nella mia band? Ci piacerebbe molto! Vorremmo averti nella band! Bla bla bla…” Ad un certo punto, all’improvviso, si sentì dalla dall’altra parte della roulotte una voce di una donna che diceva: “Duuuke, sono io! Sono qui! Dai vieni! Vieni!” E Duke mi disse “Soltanto un minuto”. Duke amava le donne, e lei lo stava chiamando, e così andò! Mi disse: “Artie ritornerò da te dopo, prendi qualche cosa da mangiare, prenditi qualcosa!”. E così mangiai delle melanzane, presi una birretta… Duke tornò circa 25 minuti dopo e cominciò di nuovo a parlarmi: “Che cosa ne pensi? Ti interessa entrare nella mia band? Ne hai il tempo?” Così, dopo che mi unii alla band, andammo in Europa… anzi, prima Chicago due o tre settimane, poi Europa, Etiopia – in Africa –  Zambia. Suonammo il Terzo Concerto Sacro! Fu un bel periodo…[2]

Addis Abeba
L’orchestra atterra ad Addis Abeba ed è accolta dall’imperatore d’Etiopia Hailé Selassié con un grande leone. Art Baron è il secondo da destra

Così, tornò a parlarmi e di nuovo quella voce: “Duuuke, Duuuke!” Insomma, ritornò dopo altri 25 minuti… C’erano fuori degli amici che mi aspettavano … Non ci potevo credere! Duke aveva un pezzo di carta con su scritto il suo numero di telefono. Me lo diede e mi disse: “Non è facile parlare adesso, quando torni a New York vieni da me”. E così lo chiamai il giorno dopo e gli dissi che era stato bello parlare, che mi sarebbe piaciuto molto unirmi alla sua band ed andare in tour con loro.
E lui mi disse: “Bene!”

AM: Quell’orchestra era profondamente cambiata rispetto a qualche anno prima. Ancora vi militavano però dei vecchi maestri, vere colonne portanti dell’orchestra, come Harry Carney, Paul Gonsalves e Russell Procope. Tu avevi solo 23 anni… Che rapporto c’era tra i ‘vecchi’ dell’orchestra e voi giovani?

AB: Il nostro rapporto era incredibile! Sai, io ero un hippy! Avevo la barba lunga, i capelli erano lunghissimi… E non mi giudicavano. Ero vestito in jeans… Blue jeans e maglietta. La maggior parte di queste persone indossava ogni giorno un magnifico completo a tre pezzi. Ed io ero un hippy! Eravamo diversi hippy: Rocky White, Barrie Lee Hall e la cantante Anita Moore. Ci avevano dato un nome per noi quattro! È il nome di una serie televisiva degli anni ‘70 che si chiamava MOD Squad. Tutti noi avevamo sui 23-24 anni e la moglie di Barrie Lee aveva l’abitudine di chiamarci The MOD Squad! Noi quattro sul pullman venivamo chiamati così. Era il soprannome di noi musicisti più giovani. Gli altri avevano tutti sui 50, 60, 70 anni! Duke aveva 73 anni! Harry Carney aveva 65 anni. Russell Procope aveva… Russell era un grande amico… Cootie, anche lui era un grande amico!

AM: A proposito di Barrie Lee Hall… Cootie Williams gli regalò la sua tromba!

AB: Quando Barrie Lee si unì alla band, un mese o due prima di me, suonava bebop. Suonava come Freddie Hubbard, tutto il genere di roba moderna. Ma si sedette vicino a Cootie, per anni, ed imparò a suonare in old style, alla maniera in cui si usava per imparare dai maestri! Diceva di essere stato seduto ai piedi del maestro! Per lui fu come un padre, come un mentore… Ed imparò con il vecchio modo di imparare!

AM: Oltre a suonare il trombone, so che suoni molti altri strumenti. Nel Terzo Concerto Sacro, ad esempio, ti si può ascoltare al flauto dolce…

AB: In occasione del Terzo Concerto Sacro Duke mi sentì suonare il flauto dolce nel camerino! Non gli piaceva molto il flauto, aveva scritto giusto qualche cosa per il flauto, ma gli piaceva molto il flauto dolce!
E così scrisse per me, per il Terzo concerto sacro, un assolo per The Lord’s Player, il Padre Nostro, con il flauto dolce.

AM: Questo concerto ha un carattere molto intimo e meditativo… Non è il trionfo di gioia ed entusiasmo che era stato il Secondo Concerto Sacro. Si avverte, nell’esecuzione, una certa intensità emotiva. Come vivevate voi dell’orchestra quell’evento? Eravate consapevoli del profondo significato che Ellington dava alla musica sacra oppure per te e gli altri era un concerto come un altro?

AB: Fu completamente fuori dal comune! Per quanto mi riguarda, personalmente – ed è la mia esperienza soggettiva – quando iniziai a suonare con Duke Ellington, avevo appena iniziato a rifletterci – 1 o 2 mesi prima – e la mia idea di musica e della comprensione di essa è: non è semplicemente “ok suoniamo un po’ e poi andiamo a divertirci e a conoscere delle ragazze” – che pure ho fatto! – Ma si trattava più che altro di aver conosciuto il senso profondo della musica. E Duke stesso parlava spesso di questa musica, soprattutto dei suoi tre concerti sacri che erano estremamente importanti per lui… Tutti e tre!

Alcuni critici, per tutti e tre i concerti sacri, non capirono. Dicevano “mi piace il Duke Ellington degli anni ’50, non questo” ma si trattava soltanto di alcune persone. Alla maggior parte della gente piaceva e capiva con quanto amore e quanta cura si stava dedicando a questo tipo di musica.

AM: Cosa pensi dell’Ellington uomo religioso?

AB: Duke diceva una cosa di sé stesso: che era un uomo molto religioso. Fece una vita meravigliosa: ebbe delle fidanzate, si divertì molto, continuò a produrre musica fino alla morte. Mentre era nel letto d’ospedale, aveva un pianoforte che suonava e componeva nuove canzoni. Ma era molto religioso… Diceva di sé stesso che era un fattorino del Signore – hai presente un fattorino? Quello che con la bicicletta va in giro a consegnare i giornali… – Ecco, lui diceva: “sono un fattorino del Signore”.

Quindi questa musica significava il mondo per Duke! Sapeva che stava per morire ed aveva bisogno del suo aiuto. Intendo dire, sapeva che era vicino alla fine…ed era così importante per lui…

Vorrei dire qualcosa sul Terzo Concerto Sacro, ma lasciami aggiungere una cosa prima.

Aveva un dottore speciale, Arthur Logan, e noi venimmo a conoscenza, mentre eravamo in tour, che era morto in una maniera molto misteriosa. Lo avevano trovato in un fiume. Qualcuno diceva che era stato ucciso, ma non si sapeva cosa era successo.  Mercer ci disse: “Non ditelo a Duke. Lasciamogli finire il tour”.

Cosi quando lo scoprì… – Sai, il Dott. Logan gli dava tutte quelle medicine che lo tenevano in vita – quando Duke seppe che era morto disse: “Non vivrò per più di sei mesi”. Ebbene, morì due giorni prima che fossero trascorsi i sei mesi!

AM: Parlaci del Terzo Concerto Sacro…

AB: Il Terzo Concerto Sacro aveva delle bellissime canzoni che furono cantate da Alice Babs. “Is God a three letters word for love? Is love a four letter word for God?” Ed era come un angelo, era come un usignolo, un bellissimo uccello che canta, e queste parole, queste idee sono così semplici ma hanno un impatto altissimo, esprimevano tutto ciò in cui lui credeva. Amava le canzoni. Questo era il mio modo di vedere le cose. C’era una grande determinazione in lui ed io non avrei neanche mai pensato in questo modo…  una determinazione… e questo fu un concerto speciale. Era la giornata delle Nazioni Unite, ottobre 1973, non ricordo se fosse il 22 o il 23…[3] Fu un’occasione speciale, per questa storia che raccontava sulla creazione, per la musica, perfino per i testi. Testi semplici, canzoni semplici, splendide armonie… cantava le sue canzoni. E Alice era la persona perfetta per cantare le sue canzoni.
Cosa interessante: eravamo tutti insieme, avevamo provato il giorno prima e stavamo provando tutta la musica, senza avere idea su quale fosse stato il brano numero uno, il numero due, il numero tre e così via. Non lo sapevamo. Il giorno dopo, avevamo provato tutto il giorno, e circa 15 minuti prima dell’inizio del concerto, tutti quanti stavano entrando, anche la principessa. La regina non c’era ma c’erano molti reali… e Duke ci guardò e ci disse: “Ragazzi suppongo che dobbiamo prepararci!”. Eravamo ancora vestiti normalmente, non avevamo ancora indossato lo smoking, dovevamo cambiarci… Quindi ci vestimmo, ci sedemmo al nostro posto, ci fu qualche annuncio e qualcuno – non so se hai mai ascoltato la registrazione – disse anche: “Signori e Signore, benvenuti al nostro concerto! Non per mancare di rispetto nei confronti dell’ONU, le Nazioni Unite, ma se Duke Ellington fosse a capo delle Nazioni Unite, certamente avremmo più armonia!” Fu grandioso!

La cosa incredibile di questo concerto è che non avevamo idea di quale sarebbe stato il brano numero uno, il numero due… Non c’era una scaletta, non ne avevamo idea! Ero seduto a fianco di Chuck Connors, e gli dissi: “Chuck, cosa succederà?” Mi disse: “Sta’ soltanto a guardare… E guarda Duke fare la sua magia!”. E Duke è magia! Filò tutto perfettamente liscio durante il concerto! Pura magia! Grande!

AM: In effetti, ascoltando la registrazione di quel concerto, si percepisce un’atmosfera magica…

AB: Sì, veramente magico! È stato il momento più magico che abbia mai vissuto con Duke! E anche dopo che Duke morì, quando Mercer guidò la band per un periodo, e si eseguivano i Concerti Sacri, qualche volta la magia di Duke Ellington veniva giù. Qualche volta quella magia era di nuovo fra noi!

L’assolo di Art Baron al flauto dolce inizia a 35:23

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[1] L’intervista è stata effettuata nell’estate del 2015 e parte della registrazione audio è stata pubblicata nelle puntate 7 e 8 dell’audiodocumentario “I concerti sacri di Duke Ellington” dell’associazione “Scuola di preghiera Bet Midrash”
[2] Il tour, iniziato il 22 ottobre 1973 e conclusosi il 3 dicembre dello stesso anno, toccò i seguenti stati: Inghilterra, Svezia, Danimarca, Germania, Austria, Iugoslavia, Italia, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Etiopia, Zambia e poi di nuovo Inghilterra, Scozia, Irlanda
[3] In realtà l’orchestra atterrò a Londra il 23 e dedicò la giornata a provare il concerto, che avvenne il giorno dopo nell’Abbazia di Westminster