Dalla Scala a Harlem

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Luca Bragalini

Dalla Scala a Harlem.
I sogni sinfonici di Duke Ellington.

ISBN 978-88-5920-367-4

Pagine 320

Editore: EDT

Collana Contrappunti | Musica

Data uscita 24-05-2018

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“Per me non si chiude un capitolo ma un’era geologica!”

È così che dal suo profilo Facebook Luca Bragalini esordisce il 24 maggio 2018, data in cui il suo Dalla Scala a Harlem. I sogni sinfonici di Duke Ellington esce nelle librerie. Ed in effetti la gestazione è durata un decennio e forse più.

Martedì 8 gennaio 2008. La Parco della Musica Jazz Orchestra presenta a Roma un programma di musiche ellingtoniane dedicate alla musica da film. Relatore e presentatore della serata è Luca Bragalini. In quell’occasione, alla fine del concerto, chi scrive questo articolo chiede direttamente al musicologo notizie su quello che, già da almeno un anno, si vocifera essere un libro sulle musiche sinfoniche di Ellington. Mi si risponde che è in fase di elaborazione e che spera di darlo alle stampe quanto prima. Esattamente un anno prima, a Chieti, le formazioni dell’Orchestra del Teatro Marrucino insieme alla SIdMA Jazz Orchestra, capitanate dal sapiente Bruno Tommaso, avevano allietato il pubblico di Chieti con un concerto di rare musiche di Ellington tra cui una misteriosa opera inedita intitolata Celebration. La registrazione di quel concerto sarebbe confluita in un CD allegato al libro in questione.

Passano gli anni, ma del famoso libro di Bragalini non si sa più niente, tanto da far credere al sottoscritto che tutto fosse naufragato e che quel progetto, come – scherzo del destino – molte delle musiche sinfoniche di Ellington, si fosse arenato per qualche motivo.

Ma ecco che negli ultimi anni di quel libro si torna a parlare. L’autore, contattato privatamente, parla di un’imminente uscita.  Siamo nel 2016, ma bisognerà attendere ancora due anni affinché negli scaffali delle librerie e nei bookstore online il volume si materializzi. L’editore è di quelli importanti, la torinese EDT ed il libro consta di 320 pagine con allegato il CD della registrazione di quel citato concerto di Chieti.

Ma perché abbiamo atteso così tanto tempo? Al netto di eventuali problemi di carattere editoriale (di cui, a onor del vero, chi scrive questo articolo ignora), la risposta appare chiara cominciando a sfogliare e a leggere le prime pagine di questo testo: si è subito inondati da una marea di dati, fonti, racconti, aneddoti, minuziose ricerche. La raccolta e l’elaborazione di questa mole impressionante di dati deve necessariamente aver richiesto molto tempo. Scorrendo le fonti bibliografiche ci si rende conto di quale fatica sia stata per l’autore completare questo libro.

Il testo indaga su una porzione dello sterminato repertorio ducale relativamente esigua e sicuramente poco conosciuta: la musica sinfonica di Ellington. Tra sogni inespressi, progetti naufragati, successi unanimi e significati celati, la musica pensata per formazioni sinfoniche si rivela quanto mai ricca di chiavi di lettura e di sofisticatezze.  E a dare nuova luce e a fornire nuovi mezzi per poterla scoprire ed ascoltare, ci pensa Bragalini, che non si limita a fornire delle analisi musicologiche ai brani presi in considerazione, ma ne racconta la genesi, i risvolti, il contesto, le ambizioni. Ma non si parla esclusivamente di musica sinfonica. Spesso è il pretesto per approfondimenti di storia, di arte, di sociologia. È così che ci si immerge, ad esempio, nel quartiere di Harlem, spaccato di una società e di un modo di vivere raccontati tante volte da Ellington nella sua musica, come nella monumentale suite (A Tone Parallel to) Harlem o in tanti altri suoi brani (vi è un elenco di ben 26 composizioni di Ellington dedicati al quartiere nero di New York!). Ma è anche l’occasione per addentrarsi in quel movimento culturale nero dei primi decenni del XX secolo chiamato Harlem Renaissance che gettò le basi per una nuova estetica e consapevolezza nera.

Se dalle prime pagine si rimane un po’ storditi dalla sin troppo certosina ricostruzione di una seduta d’incisione avvenuta a Milano, in cui Ellington fece registrare una sua composizione agli orchestrali del Teatro Alla Scala, ma della quale sembrava scomparsa ogni memoria e traccia (ma che l’autore ricostruisce in modo impeccabile), via via che passano le pagine, la narrazione si fa più scorrevole ed interessante. Ed è così che si dà nuova luce a New World A-Comin’, una composizione ispirata all’omonimo libro di Roi Ottley e che verrà eseguita dalle orchestre sinfoniche, dalla bigband e dal solo Ellington al pianoforte. Ma il fiore all’occhiello di questo libro è senza dubbio il già citato capitolo dedicato a Harlem.

Non privi d’interesse risultano i successivi capitoli che prendono in analisi composizioni altrettanto riuscite come Night Creature, The Golden Broom And The Green Apple per poi approdare a due lavori compositivi quasi sconosciuti ma di notevole interesse. Il primo è un balletto rimasto incompiuto a cui il musicista stava lavorando in punto di morte nel letto d’ospedale, Three Black Kings, opera dedicata a tre re neri della storia. L’altro è un lavoro di cui davvero non si sapeva quasi niente e al cui autore va il merito di averlo riscoperto e portato a nuova luce. Oltre ad una disamina musicologica, Celebration può essere apprezzata nell’ascolto del CD allegato, nella sua unica registrazione disponibile (assieme a Three Black Kings e a For Ellington di John Lewis).

Ciò che invece rende la lettura di questo studio non completa è l’impossibilità di poter consultare alcuni documenti sonori di cui Bragalini fa ampia disamina in quanto si tratta di nastri inediti che l’autore ha potuto consultare grazie alla disponibilità di alcuni collezionisti. Di questa cosa non può di certo essere fatta un’accusa all’autore ma ne approfittiamo per sottolineare quanto la gelosia di molti collezionisti non fa bene a nessuno! Auspichiamo che certo materiale rimasto inedito possa essere prima o poi messo a disposizione di tutti…

In conclusione non possiamo che elogiare questo sforzo editoriale, perché un testo del genere mancava e non solo in lingua italiana. La musicologia italiana che si occupa di jazz e musica afroamericana ha dimostrato negli ultimi anni di stare un passo avanti rispetto a quella americana. A Bragalini va il merito di aver creduto fortemente in questo progetto, cosa da non sottovalutare, visto l’argomento così poco dibattuto e conosciuto e di aver tenacemente lavorato con metodo scientifico.

Dalla Scala a Harlem è un libro che non dovrebbe mancare nello scaffale di ogni buon amante di Duke Ellington. È un testo che andrebbe studiato nei conservatori e letto da chiunque si interessi di musica.

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Edward Kennedy Ellington: preludio ad una carriera leggendaria – I Washingtonians e l’approdo al Cotton Club [3/3]

Continuo dei precedenti articoli (Parte 1 e Parte 2)

Nel 1921 Sonny Greer, Otto Hardwick e Duke Ellington vanno a New York per tornare poco dopo a Washington.

Wilbur Sweatman
Wilbur Sweatman era cresciuto negli spettacoli da circo ed era famoso per suonare contemporaneamente più strumenti

Ma due anni dopo, Wilbur Sweatman, un musicista poliedrico amico di Sonny Greer, invita quest’ultimo a suonare a New York. Greer è pronto a fare il grande salto nella Grande Mela e convince i suoi amici Hardwick e Snowden a seguirlo. Ellington, dopo molte lettere dei suoi amici che lo invitavano ad unirsi a loro, mette da parte la sua iniziale riluttanza e si convince a partire, portando con sé sua moglie Edna, che troverà lavoro come showgirl al Connie’s Inn. A New York, lavorano per uno spettacolo di vaudeville al Lafayette Theatre che però avrà scarso successo, tanto che dopo una settimana i ragazzi si trovano senza lavoro e senza soldi per tornare a casa. In quei giorni, però, hanno l’occasione di ascoltare e conoscere dei grandi pianisti come Willie ‘The Lion’ Smith, Fats Waller e, di nuovo, James P. Johnson. Ancora, l’incontro con questi pianisti sarà di grande ispirazione per Ellington che, nel frattempo, dopo aver trovato cinquanta dollari per terra, ha l’occasione di pagare il viaggio di ritorno per sé e per i suoi amici per Washington. Ma nell’estate di quell’anno, Ellington sarà di nuovo – e questa volta definitivamente – a New York con i suoi amici di Washington, che, capitanati da Snowden, si fanno conoscere con nomi come Elmer Snowden’s Novelty Orchestra o The Washingtonian Black Dot Orchestra. Ma nell’autunno di quell’anno, Snowden lascia il gruppo e la guida viene affidata ad Ellington e Greer, che si fanno chiamare The Washingtonians.

I Washingtonians nel 1925 ca.
I Washingtonians nel 1925 ca.

La musica che suonavano i Washingtonians doveva suonare agli orecchi del pubblico newyorkese molto poco jazz e molto più sweet (come si diceva all’epoca). In effetti erano ancora un gruppo pieno di entusiasmo e vitalità, ma ancora privo di una vera identità ed estetica musicale: «All’epoca non c’erano vere e proprie orchestre ad Harlem. Noi eravamo solo un gruppo di cinque, ma avevamo arrangiamenti abbastanza buoni su tutto; facevamo quello che oggi si definisce musica di sottofondo, tipo gut-bucket»[17] A plasmare però lo stile della loro musica, contribuì moltissimo l’ingresso di alcuni musicisti dalla forte personalità ed identità musicale. In particolar modo, il trombettista James ‘Bubber’ Miley ed il trombonista Charles Irvis (che in seguito lascerà il posto a Joe ‘Tricky Sam’ Nanton), con il loro sapiente uso delle sordine ed i loro suoni rurali e “sporchi”, conferiranno alla band un sound molto particolare e riconoscibile. Anche il repertorio cominciava ad avere tratti stilistici più definiti. Sonny Greer disse: «Duke non faceva molte composizioni, ma prendeva delle melodie popolari e le modificava e Toby [Hardwick] faceva il raddoppio con il C-melody sax e il sax baritono, così che parevamo una grande orchestra»[18]

Nel novembre 1924 i Washingtonians esordiscono in studio di registrazione incidendo i primi due brani: Choo Choo e Rainy Nights. Si esibiscono stabilmente all’Hollywood Cabaret e, seppur per un breve periodo, si unisce alla band anche Sidney Bechet ma, purtroppo, non verrà lasciata traccia registrata.

Will Marion Cook
Will Marion Cook

Non di soli pianisti si nutriva il giovane Ellington. Una forte influenza la ebbe in quel periodo anche dal compositore e violinista Will Marion Cook, il cui grande lavoro nel creare un rinascimento afroamericano del musical e della musica “seria” aveva riscosso un grande successo, non solo tra i neri, nei primi anni del ‘900. Costui diede delle lezioni di armonia ed orchestrazione ad Ellington e fu per lui un grande mentore, come lo fu Will Vodery che lavorava come direttore musicale, compositore ed arrangiatore di Cook e che si era fatto notare a Broadway nel circuito di Florenz Ziegfeld.

Chocolade kiddies1In questo periodo Ellington ha persino l’occasione di farsi valere per la prima volta all’estero, non, beninteso, esibendosi di persona in altri paesi, ma ha l’occasione di far risuonare la sua musica in tutto il vecchio continente. Nel 1925, infatti, scrive le musiche, insieme a Jo Trent, per una rivista musicale dal titolo The Chocolate Kiddies che gli darà nuovi stimoli creativi. Lo show non approdò mai a Broadway, né fu rappresentato mai in altri teatri d’America, ma trionfò al Wintergarten di Berlino con l’orchestra di Sam Wooding e la cantante Adelaide Hall tanto da essere rappresentato in tutta Europa per due anni.

Nel frattempo Ellington, ormai divenuto unico leader della band, continua ad esibirsi all’Hollywood Cabaret, ora diventato Club Kentucky e nuovi validi musicisti si uniscono al gruppo: Freddie Guy al banjo e chitarra, Joe ‘Tricky Sam’ Nanton al trombone ed il giovanissimo Harry Carney alle ance, che rimarrà un fedelissimo di Ellington fino alla sua morte. Nel 1926 ormai l’orchestra ha uno stile ben forgiato e registra i primi capolavori come East St Louis Toodle-Oo, Birmingham Breakdown e Immigration Blues. È l’anno anche in cui conosce l’impresario Irving Mills, che da quel momento sarà determinante negli anni a seguire per il successo di Ellington, pur avendo più di qualche ombra. È lui che gli organizza una seduta d’incisione per l’importante casa discografica Brunswick, pretendendo che venissero incise per la prima volta quelle composizioni originali che aveva ascoltato al Kentucky.

L’anno successivo si unisce alla band un contrabbassista di New Orleans che fu molto influente per il suo modo di suonare e di swingare: Wellman Braud.

I tempi sono ormai maturi per fare il gran salto di qualità: nell’autunno del 1927, il manager del celebre Cotton Club ottiene un contratto d’esclusiva per far esibire Ellington e la sua orchestra nel suo rinomato club. Ellington, nonostante fosse ancora sotto contratto con il Gibson’s Standard Theatre di Philadelphia – pare che degli “emissari” del Cotton Club abbiano persuaso con metodi ben poco gentili il proprietario del teatro[19] – debutta, con un’orchestra di dieci elementi, il 4 dicembre al Cotton Club, il più esclusivo e rinomato locale di New York e d’America.Cotton Club

Da questo momento in poi la carriera di Ellington sarà un susseguirsi di successi, nuovi ingaggi, concerti e tournée prestigiose, nonché di un’incredibile creatività musicale che lo porterà a scrivere (e registrare) capolavori immortali. La sua orchestra diventerà la formazione musicale più raffinata ed esclusiva d’America.

Ma questa è un’altra storia…

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[17] James Lincoln Collier, Duke Ellington. La sua vita la sua musica. Spearling & Kupfer Editori, 1990, 45
[18] Ibidem
[19] Richard O. Boyer, “The Hot Bach”, Part III, New Yorker, 1944-07-08 p.29

Edward Kennedy Ellington: preludio ad una carriera leggendaria – Gli anni formativi [2/3]

Continuo del precedente articolo

È nel 1913 che Ellington entra nell’Armstrong High School – una delle migliori scuole per neri – per studiare arti grafiche ed è nello stesso periodo che, durante un viaggio a Philadelphia, ha l’occasione di ascoltare dal vivo un pianista di nome Harvey Brooks che dovette impressionarlo molto. A detta dello stesso Duke, pare che fosse particolarmente bravo con la mano sinistra ed avesse molto swing. Gli diede così qualche lezione sui rudimenti della tecnica pianistica e tanto bastò per far nascere nel giovane Edward la voglia di suonare e di applicarsi al pianoforte, con l’assistenza di sua madre, che aveva una discreta preparazione musicale. «Prima di allora al piano non ero mai decollato veramente, ma dopo averlo sentito mi dissi che dovevo farcela, punto e basta» [9]. È interessante inoltre notare come il padre di Ellington, nonostante non avesse un’educazione musicale, amava sedere al pianoforte e suonare ad orecchio il repertorio dell’opera.

Fu in quei primi anni del liceo, probabilmente tra il 1914 ed il 1915 che Ellington compose il suo primo brano, Soda Fountain Rag, il cui titolo si rifà al lavoro da soda jerk che svolgeva all’epoca. Era un brano ovviamente ispirato al ragtime in voga nei primi del ‘900, ma più che una vera e propria composizione, Soda Fountain Rag consisteva di poche idee musicali che servivano da base per elaborazioni improvvisate. Il giovane pianista Ellington, ancora a corto di repertorio, adattava tali materiali in nuove combinazioni, tempi, ritmi e stili.[10]

Edgar McEntree e Duke Ellington
Edgar McEntree e Duke Ellington

Ed è sempre nello stesso periodo che Ellington ricevette il soprannome Duke, affibbiatogli da un amico, un certo Edgar McEntree, «un soggetto un po’ stravagante che amava vestirsi bene. Apparteneva alla buona società, era un bravo ragazzo e molto festaiolo. Pensava che, per poter stare in sua compagnia, dovessi avere un titolo, perciò mi chiamò “Duke”».[11] Tale soprannome si addiceva perfettamente a quel giovanotto che cominciava ad avere la fama di essere un tipo elegante e dai modi garbati.Ruth Ellington
Il 1915 è anche l’anno di nascita di sua sorella Ruth, che, insieme alla madre Daisy, fu una delle donne più importanti della vita di Duke.[12]

Il giovane Ellington cominciava a farsi sentire nei locali, nelle feste private o in eventi pubblici, ma il suo repertorio era ancora piuttosto scarno (“ancora conoscevo non più di quattro pezzi”). L’entusiasmo e la faccia tosta però non gli mancavano: rielaborava quei pochi temi in mille varianti, in modo da dare l’impressione di conoscere una gran varietà di musica.

Fu così che, con un una buona dose di spavalderia, decise di mettersi in proprio e pubblicare un annuncio sulla guida telefonica che prometteva «musica per tutte le occasioni». Non solo… A volte aveva l’occasione di unire le sue due vocazioni fornendo, oltre alla musica di un evento, anche i cartelloni pubblicitari e le locandine, oppure dipingeva i fondali per gli spettacoli dell’Howard Theatre. Fu la nascita non solo dell’Ellington musicista professionista, ma anche dell’Ellington impresario.

Tra coloro che influenzarono maggiormente Ellington in quegli anni, ci sono nomi più o meno famosi del pianismo ragtime, come pure personaggi oggi totalmente dimenticati. Alcuni erano musicisti professionisti, mentre altri erano dilettanti; tutti erano soliti trascorrere le serate in una famosa sala da biliardo che Ellington frequentava. È lo stesso Duke a ricordare alcuni di questi: Ralph Green, Claude Hopkins, Shrimp Bonner, Phil Word, Roscoe Lee, Clarence Bowser, Sticky Mack, Blind Johnny, Les Dishman. Vi erano anche pianisti che avevano fatto studi in conservatorio, come Louis Brown, Louis Thomas, Oliver ‘Doc’ Perry e Henry Grant. Questi ultimi due, in particolar modo, furono determinanti per la crescita musicale di Duke. Erano dei pianisti con un’educazione musicale classica che impressionarono Ellington e che dei quali sottolineava il profondo rispetto che avevano sia verso i musicisti di stampo classico, sia per quelli “popolari” che suonavano ad orecchio. Doc Perry intuì in quel ragazzo un certo talento e lo prese sotto la sua ala protettrice trasmettendogli dei rudimenti di piano ragtime e conoscenze di lettura della partitura e di accordi. Henry Grant insegnava musica alla scuola superiore di Ellington e gli diede generosamente lezioni di armonia[13] (“fu un corso segreto che mi aprì delle prospettive verso composizioni più complesse”).[14] Erano gli anni della Prima Guerra Mondiale e Washington era un crocevia per molte persone, tra cui molti musicisti. A detta di Ellington, tutti quei pianisti avevano un forte senso di collaborazione e si passavano l’un l’altro i trucchi del mestiere. Ellington passava le ore ai piedi di quei pianoforti cercando di catturare ogni segreto di quella arte.

Non da meno, c’è da sottolineare come, durante l’infanzia, Ellington frequentasse le messe della chiesa battista (a cui apparteneva la madre) o di quella metodista episcopale (a cui apparteneva la famiglia del padre) dove poté imparare inni e canti sia bianchi che neri.[15]

Duke ragazzo

Ma in breve tempo Ellington si rese conto che poteva osare di più e non limitarsi al solo pianoforte. Fu così che, nel 1916, formò una piccola band con dei compagni di scuola che si facevano chiamare The Duke’s Serenaders. A quella prima orchestra si unirono due musicisti che anni dopo divennero dei punti di riferimento dell’orchestra di Duke Ellington: il trombettista Arthur Whetsel ed il sassofonista (in origine contrabbassista) Otto ‘Toby’ Hardwick. Con loro vi era anche il banjoista Elmer Snowden.

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Prima ancora di finire la scuola, Ellington vinse una borsa di studio in belle arti al Pratt Institute di Brooklyn (New Jersey) dopo aver vinto un concorso artistico, ma suonare il pianoforte e noleggiare le orchestre cominciavano a fruttare i primi guadagni e così non accettò mai quella borsa di studio e si ritirò da scuola prima ancora di diplomarsi.

Edna Thomson Ellington
Edna Thomson Ellington

Nel 1918 Duke sposa Edna Thomson, una ragazza conosciuta a scuola. L’anno seguente, dal loro amore nascerà Mercer Kennedy Ellington, che giocherà un ruolo molto importante molti anni dopo nell’impresa Ellington. Sempre in quell’anno conosce il batterista Sonny Greer, che aveva suonato in trio col grande Fats Waller.

Fu in quel periodo che ebbe un incontro che si rivelerà tra i più importanti per la crescita pianistica di Ellington. Un suo amico gli fece ascoltare un rullo di pianola di Carolina Shout del pianista James P. Johnson. «Mi si aprì un mondo di possibilità del tutto nuove, e ritornai ogni giorno ad ascoltarlo. […] Finì che imparai alla perfezione il suo Carolina Shout e quando James P. Johnson venne a Washington a suonare alla Convention Hall, la mia claque attese che suonasse Carolina Shout e insistette perché salissi sul palcoscenico e lo stracciassi! Ero terrorizzato. Ma James P. era non soltanto un maestro, ma anche grande nell’incoraggiare i giovani. Seguì tutta la mia esibizione, e quando terminai Carolina Shout applaudì anche lui». Di quell’incontro dirà: «Credo che imparai, in una serata, l’equivalente di sei mesi di conservatorio».[16]

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[9] Duke Ellington, La musica è la mia signora. L’autobiografia. Roma, 2014 (Titolo originale Music Is My Mistress, 1973), 22
[10] AA.VV., The Cambridge Companion to Duke Ellington edited by Edward Green, Cambridge University Press, 2014, 22. TdA
[11] Ellington, 22
[12] Più tardi, nel 1941, divenne presidente della Tempo Music, la compagnia di pubblicazioni di Ellington, e mantenne gli affari del fratello per oltre cinquanta anni. NdA
[13] AA.VV., 23. TdA
[14] Ellington, 26
[15] Harvey G. Cohen, Duke Ellington’s America. The University of Chicago Press, 2010, 19
[16] Ellington, 29

Edward Kennedy Ellington: preludio ad una carriera leggendaria – Nascita di un genio [1/3]

Di solito di Duke Ellington si inizia a raccontare la sua cinquantennale carriera a cominciare dai successi della sua orchestra al Cotton Club di New York, alla fine degli anni ’20. Ma chi era Duke Ellington prima di diventare un simbolo della Harlem Renaissance e salire alla ribalta dello showbiz?

Siamo alla fine del XIX secolo e Washington risulta essere per i neri un’isola felice (per lo meno molto più felice di qualsiasi altro posto negli Stati Uniti). Nella sua autobiografia, Up from Slavery, il leader afroamericano Booker T. Washington scrisse:

Durante il periodo in cui ero studente a Washington, la città era gremita di persone di colore, molte delle quali erano recentemente venute dal Sud. Una gran parte di questa gente era stata attratta da Washington in quanto pensava che là potesse condurre una vita agiata. Altri si erano assicurati posizioni governative minoritarie ed ancora un’altra larga fetta era lì nella speranza di assicurarsi una posizione nel Governo Federale. Un gran numero di uomini di colore – alcuni dei quali molto potenti e validi – in quel tempo erano nella Camera dei rappresentanti ed uno, l’On. B.K. Bruce era al Senato. Tutto ciò tendeva a rendere Washington un posto attraente per le persone di colore. Inoltre, sapevano che nel District of Columbia in ogni caso avrebbero avuto la protezione della legge. Le scuole pubbliche per persone di colore di Washington erano meglio che in qualsiasi altro posto.[1]

Questa era la situazione nel 1878, un anno dopo la fine dell’Era della Ricostruzione, sulla scia della Guerra Civile. Presto, però, il giogo della dominazione prese ancora una volta piede. George White, l’ultimo membro del Congresso nero dell’era post-Ricostruzione, tornò a casa nel 1901, subito dopo che gli stati del Sud privarono dei diritti civili i loro cittadini neri, e bisognerà attendere il 1972 affinché uno stato della Confederazione invii un altro nero al Congresso.[2]

Ad ogni modo, Washington rappresentava una forte attrazione per i neri del Sud e nel 1900 vi vivevano 87000 neri, un terzo della città.[3] Al fianco delle casupole malandate degli strati più poveri della società, coesistevano villini della media borghesia nera. Ed è a quest’ultima che appartenevano gli Ellington.

Discendente (come qualsiasi nero) da nonni ex-schiavi, James Edward Ellington trovò la sua grande occasione nel 1897, quando fu assunto come vetturino – ed in seguito come maggiordomo – di un medico di una certa reputazione. Fu nello stesso anno che sposò Daisy Kennedy, figlia di un capitano di polizia e appartenente ad un ceto sociale superiore. L’anno seguente, dal loro amore nascerà, il 29 aprile, quell’ Edward Kennedy che, anni dopo, il mondo conoscerà come Duke Ellington.

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Daisy Kennedy e James Edward Ellington
Certificato di nascita
Il certificato di nascita di Ellington
Duke Ellington nel 1903 ca.
Duke Ellington nel 1903 ca.

A questo punto possiamo immaginare come l’infanzia del nostro protagonista fosse ben più agevole della maggior parte dei neri e dei musicisti neri dell’epoca (basti pensare, ad esempio, all’infanzia di Louis Armstrong). Il piccolo Edward cresceva coccolato e viziato da tutte le donne della famiglia, nonna, mamma, zie e cugine, in un ambiente da middle-class negra[4] e come membro di questo ceto sociale, ricevette una buona educazione scolastica e fu avvicinato anche allo studio della musica. All’età di sette anni, infatti, la madre lo mandò a lezione di pianoforte da una certa Marietta Clinkscales nonostante avesse «saltato più di metà delle lezioni a causa della passione per il baseball e per le corse lungo le strade del quartiere. […] Quando ci fu il saggio nella chiesa con tutti i suoi alunni, ero l’unico a non saper suonare il pezzo assegnato. Allora la signora Clinkscales fu costretta a suonare le note alte con la mano destra e io suonai quelle basse con la sinistra, il giro di basso. Quel tipo di basso era ovviamente alla base dello stile pianistico che in seguito avrei tanto amato. E sarei stato ben contento di averlo imparato, perché era in linea con quello che all’epoca facevano i pianisti più quotati»[5].

Non c’era casa della buona società nera, infatti, che non avesse un pianoforte.

L’adolescente Edward mostrava però un certo talento per le arti grafiche e a lungo fu attratto dall’idea di intraprendere una carriera da pittore o da illustratore, cosa che dovette soddisfare le aspettative della sua famiglia.

Nel frattempo, la situazione dei neri di Washington era cambiata. Nel 1913 Woodrow Wilson, il primo politico originario del Sud ad essere eletto presidente dai tempi della Ricostruzione, segregò la burocrazia federale con un decreto amministrativo, infliggendo così un duro colpo alle fortune dei neri della middle-class della città. «Ho di recente trascorso diversi giorni a Washington» scrisse Booker T. Washington ad un collega subito dopo «e non ho mai visto la gente di colore così scoraggiata e amareggiata come è ora».[6]

I crescenti pregiudizi razziali all’interno della stessa comunità nera della città erano ben tangibili da chi, come Duke Ellington, viveva la sua gioventù in quegli anni: «Non so quante caste di neri ci fossero allora in città, ma so che se decidevi di mescolarti a qualche altra casta senza pensarci, qualcuno ti diceva che non era una cosa da farsi».[7] Ancor più esemplare è il racconto del batterista Sonny Greer: «Potevo suonare per i balli, ma non potevo mischiarmi a tutti quegli ampollosi dottori e avvocati e a quelle fichette dell’università»[8].

Sonny Greer
Sonny Greer

To be continued…

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[1] Booker T. Washington, Up from Slavery Up: An Autobiography, originariamente pubblicata nel 1901. Student Handouts, Inc. Toledo, Ohio, 2008, 37-38. Consultabile qui. TdA
[2] Terry Teachout, Duke: A Life of Duke Ellington, Gotham Books. New York, 2013, 23. TdA
[3] Ibidem, 22. TdA
[4] Antonio Berini, Giovanni M. Volonté, Duke Ellington. Un genio, un mito, Ponte alle Grazie. Firenze, 1994, 23. TdA
[5] Duke Ellington, La musica è la mia signora. L’autobiografia. Minimum Fax, Roma, 2014 (Titolo originale Music Is My Mistress, 1973), 17
[6] Teachout 23. TdA
[7] Ellington, 21
[8] Teachout 24. TdA

Take the “A” Train: nascita di un capolavoro

Ci sono brani o canzoni che immediatamente vengono associate ad un musicista. Questo è il caso di Take The “A” Train. Registrata per la prima volta in studio nel 1941, Take The “A” Train divenne subito la sigla d’apertura di ogni concerto dell’orchestra di Duke Ellington. Ma, sebbene ancora molti l’attribuiscano al Duca, non è ad Ellington che spetta la paternità della composizione ma al fidato amico e collega Billy Strayhorn.

Ma per scoprire la genesi (e gli sviluppi) di questo brano destinato a fare storia, facciamo un passo indietro e più precisamente alla fine del 1938, quando un giovane ragazzo di Pittsburgh, di buona educazione, dai modi garbati e con l’aspirazione di diventare un compositore “serio”, ha l’occasione di incontrare ed ascoltare per la prima volta Duke Ellington e la sua orchestra, che aveva così tanto ammirato dai dischi e dalla radio. A presentarlo al Duca fu un amico in comune, il quale fece introdurre il ventitreenne Strayhorn nel camerino di Ellington tra uno spettacolo e l’altro. Quest’ultimo, impegnato ad impomatarsi i capelli e sdraiato su di una sedia reclinabile, non fece neanche lo sforzo di aprire gli occhi per vedere chi avesse davanti. Semplicemente disse al giovanotto di accomodarsi al pianoforte e fargli sentire qualcosa. Per tutta risposta, Strayhorn suonò Sophisticated Lady esattamente come l’aveva poc’anzi sentita suonare dal suo autore. Finito di suonare, si rivolse al suo mentore e disse: «Questo era come tu l’hai suonato. Così invece è come io lo suonerei» e riprese il pezzo riarmonizzandolo e variandolo. A questo punto Ellington non giaceva più con gli occhi chiusi, ma si trovava seduto a fianco a quel ragazzo, rapito dal suo talento. Gli fece poi sentire altre sue canzoni, ma ormai Ellington era rimasto colpito.

Di lì a breve Ellington si decise a farlo entrare nella sua organizzazione, sebbene non avesse ancora chiaro in quale ruolo. Dapprima, così, gli diede da scrivere i testi per delle canzoni da lui composte, invitandolo ad andare a casa sua, ad Harlem, New York, dove, insieme al figlio Mercer, avrebbe potuto occuparsi appieno del lavoro mentre lui e la sua orchestra erano in tournée. In quel periodo Strayhorn si occupò anche di scrivere nuovi arrangiamenti, ma i tempi erano ormai maturi per consegnare finalmente ad Ellington qualcosa di proprio pugno. Il destino, per una volta, volle sorridergli… Succedeva, infatti che, dal 1940 al 1941, una disputa tra le società di autori ASCAP e BMI tolse la possibilità per i loro associati di eseguire pubblicamente loro composizioni. Ellington, che era socio ASCAP, dovette correre ai ripari, incoraggiando le abilità compositive di suo figlio Mercer, il trombonista Juan Tizol e, appunto, Billy Strayhorn.

Memore delle indicazioni che Ellington diede a Strayhorn la prima volta che lo invitò alla sua residenza a Harlem («Take the “A” Train to Sugar Hill»), Strayhorn consegnò ad Ellington la partitura di un brano che, per stessa ammissione del suo autore, pagava un tributo a Fletcher Henderson, ma che suonava così squisitamente ellingtoniano. Così, infatti, affermò il compositore e musicologo Gunther Schuller nel 2007:

«Avrò ascoltato Take the “A” Train quanto… Diecimila volte? Ad oggi è ancora difficile per me accettare pienamente che è una composizione di Strayhorn. Dio mio, questo pezzo è così puro Ellington! È incredibile!».

A detta dell’autore, Take The “A” Train nacque senza sforzo (“fu come scrivere una lettera a un amico”).

Cover

Il 15 febbraio del 1941 l’orchestra di Ellington entrò negli studi della RCA-Victor per incidere quella che sarebbe divenuta la sigla dell’orchestra, sostituendo Sepia Panorama. Questa registrazione divenne una hit e rimase negli annali non solo per essere stato il primo brano di Strayhorn ad essere inciso da Ellington e la sua orchestra, ma anche per aver dato a battesimo in studio di incisione il trombettista e cantante Ray Nance, da poco entrato nell’orchestra, il cui assolo fu talmente in sintonia con lo spirito del pezzo che tuttora viene citato da schiere di trombettisti.

Come ha scritto il musicologo Walter van de Leur (il massimo esperto della musica di Strayhorn): «Con le sue melodie ad ottavi, il tema dal sapore bebop di “A” Train è sorprendentemente moderno, sebbene i cambi di accordi sembrano avere un debito con la composizione del 1930 di Jimmy McHugh e Dorothy Fields, Exactly Like You». Il brano ha la classica struttura di 32 misure AABA e l’orchestrazione sembra quasi un esercizio di imitazione degli stilemi della Swing Era. Nonostante ciò, brani come Cottontail e Take The “A” Train ci suggeriscono che già agli inizi degli anni ’40, la rivoluzione del bebop era nell’aria.

Manoscritto originale della partitura di Take The “A” Train di Billy Strayhorn

Sarebbe impossibile, a questo punto, elencare le innumerevoli esecuzioni di questo brano. Per dare un’idea, gli storici Luciano Massagli e Giovanni M. Volonté hanno contato più di 1100 esecuzioni registrate del brano! Ma assai di più furono le esecuzioni dal vivo non registrate… Vale però la pena soffermarsi su alcune esecuzioni particolarmente interessanti.

Nel 1944 l’allora ventenne Joya Sherrill scrisse un testo per il brano che fu presentato ad Ellington, il quale ne rimase piacevolmente colpito e la assunse come cantante. Il testo alludeva a quell’élite nera (di cui faceva parte lo stesso Ellington) che viveva a Sugar Hill.

You must take the A Train
To go to Sugar Hill way up in Harlem
If you miss the A Train
You’ll find you’ve missed the quickest way to Harlem
Hurry, get on, now, it’s coming
Listen to those rails a-thrumming (All Aboard!)
Get on the A Train
Soon you will be on Sugar Hill in Harlem

Manhattan Murals
La prima pagina della partitura di Manhattan Murals

Una versione estesa di “A Train” fu arrangiata, in collaborazione con lo stesso Ellington, per il concerto alla Carnegie Hall di New York del novembre 1948, con il titolo Manhattan Murals.

Pettiford

Versione notevole è la registrazione per la Mercer Records che fece Oscar Pettiford nel 1950, piuttosto particolare non solo perché si ascolta Strayhorn alla celesta, ma anche perché è uno dei primissimi assoli di violoncello jazz mai registrati, ad opera di Pettiford.

È del 1952, invece, un’altra versione estesa del brano molto nota, questa volta registrata in studio con la voce di Betty Roché, la quale dopo una lunga introduzione di Ellington al pianoforte, si avventura anche in un lungo assolo scat.

Take The “A” Train divenne anche la vetrina per il talentuoso contrabbassista Ernie Shepard, che si unì all’orchestra ellingtoniana per un breve periodo nei primi anni ‘60

Ma chi più di tutti ne fece un cavallo di battaglia (e non solo, come abbiamo visto, con la tromba) fu l’estroso Ray Nance, musicista tuttofare dell’orchestra (era infatti, oltre che trombettista, violinista, cantante, ballerino ed entertainer!). Qui lo vediamo in uno dei suoi tanti show:

Furono davvero poche le occasioni di vedere Billy Strayhorn esibirsi in pubblico. Una di esse fu durante un concerto di Ellington negli anni ’60, in cui il boss chiamò l’autore del brano sul palco, il quale, timidamente, sedette al pianoforte e attaccò il suo cavallo di battaglia:

Non furono rare le volte che, soprattutto negli ultimi anni della sua carriera, Duke Ellington suonò A Train da solo al pianoforte o in trio con la sezione ritmica. Negli anni elaborò e arricchì la melodia e l’armonia del brano del suo amico, nonché il ritmo, facendolo diventare un bel jazz waltz:

Con questa carrellata di video concludiamo questo viaggio. Ricordate: se a New York dovete arrivare a Sugar Hill, ricordatevi di prendere il Treno A!

Fabrizio Bosso: Duke

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Fabrizio Bosso non ha di certo bisogno di presentazioni. Tra i trombettisti più richiesti in circolazione, vanta collaborazioni con i migliori jazzisti italiani ed internazionali e la sua presenza è non di rado al fianco di popstar.

Come ogni grande musicista che si rispetti, la creatività e lo sviluppo di nuovi progetti va di pari passo con il tributo ai grandi del passato. Tra questi non poteva mancare Duke Ellington, fonte di ispirazione per generazioni di jazzisti e che è alla base di questo recente lavoro discografico.

È così che Fabrizio Bosso, con l’ausilio della direzione e degli arrangiamenti di Paolo Silvestri, pubblica un disco tutto dedicato alla musica di Ellington, dal titolo semplice e diretto, quasi ovvio: Duke, pubblicato dalla storica casa discografica Verve. Alle maestranze abbiamo il quartetto di Bosso, con Julian Oliver Mazzariello al pianoforte, Luca Alemanno al contrabbasso e Nicola Angelucci alla batteria, supportati da sei fiati di spessore ed esperienza diretti da Paolo Silvestri.

L’album apre con una frizzante I Let a Song Go Out of My Heart che subito coinvolge e convince e mostra tutto il potenziale di questo ensemble, dei solisti e della accurata scrittura. La scelta di includere Caravan in questa selezione risulta tanto obbligata quanto banale, così come manca di originalità l’arrangiamento: difficile rendere intrigante un brano del genere dopo che è stato vilipeso e stuprato per decenni… L’arrangiamento, seppur ineccepibile dal punto di vista formale, sembra però già familiare, già ascoltato nelle migliaia di interpretazioni di questo brano. Bosso è come sempre fantastico, ma anche qui manca un qualcosa di personale a rendere interessante il pezzo.

In A Sentimental Mood trae ispirazione dalla storica registrazione di John Coltrane con Duke Ellington. Brano d’atmosfera, si presta a chiaroscuri e tinte nuance che sia gli insiemi dei fiati che l’interpretazione di Bosso sanno rendere al meglio.

Il passaggio ad un’atmosfera vivace se non addirittura agitata avviene repentinamente con un breve ma intenso tuffo in It Don’t Mean A Thing (If It Ain’t Got That Swing), in cui, più che gli assoli, spiccano le bellissime frasi all’unisono dei fiati, merito dell’estro dell’arrangiatore ma anche alla validità dei musicisti coinvolti.

Quello che segue è un medley di due brani diversi per stile e per epoca: Black And Tan Fantasy e Jeep’s Blues. L’impasto di ottoni con sordina con il martellante ostinato sulla stessa nota del contrabbasso, che aprono il primo brano, più che ricordare le atmosfere del Cotton Club della fine degli anni ’20, sembra essere un tributo al Gil Evans degli anni ‘50 (che, beninteso, fu un discepolo indiretto del Duca). Ma all’interessante introduzione fa seguito un quasi banale collegamento con Jeep’s Blues. Cosa hanno in comune i due brani? Il giro di blues, appunto. Il raddoppio del tempo, anche, non rappresenta motivo di interesse… Il pezzo potrebbe finire qui, ma una carrellata di assoli lo fa diventare quasi stucchevole.

In Solitude Fabrizio Bosso ha la possibilità di esaltare tutto il suo lirismo. L’arrangiamento è ricercato e lascia a Bosso totale libertà di esprimersi talvolta con note tenute e frasi lunghe, talaltra con piroette virtuosistiche che solo lui può regalare.

A chiusura dell’album, troviamo un altro pezzo – dopo Caravan – firmato Juan Tizol: Perdido. Apre un ritmo funk a cui segue uno swing ispirato in cui si ammira una bella riproposizione dell’arrangiamento di Gerald Wilson contenuto nello storico album ellingtoniano Piano in the Background, con le “boppeggianti” frasi in origine appannaggio di Jimmy Hamilton, Paul Gonsalves e Clark Terry. Seguono gli assoli dei solisti, uno più bello dell’altro. Peccato per l’introduzione, totalmente fuori contesto!

Ascoltando questo album si ha subito la sensazione di avere a che fare con una super formazione che esegue il suo compito più che dignitosamente. Gli insiemi funzionano, gli arrangiamenti sono ben fatti, i solisti – Bosso in primis – eccellenti. Eppure manca qualcosa. Quello che forse sembra mancare in questo lavoro discografico è il cuore. Non basta svolgere il proprio compito bene per rendere un album eccellente. Se al posto di questi brani fossero stati inseriti standard di altri autori, il risultato sarebbe stato probabilmente simile. C’è poco, pochissimo Ellington in questo album, a cominciare dalla scelta dei brani: da un album-tributo ci si aspetterebbe qualche pezzo meno noto ma che un ensemble del genere avrebbe potuto esaltare ed invece la scelta è talmente scontata da risultare quasi irritante. Gli arrangiamenti, come già detto, sono fatti benissimo ma suonano spesso come roba già ascoltata tra le centinaia di album tributati ad Ellington. Il brano che suona più ellingtoniano è Perdido e non, si badi bene, per l’adesione quasi perfetta all’arrangiamento originale, ma perché sprigiona energia ed equilibrio della forma. La forma… Possibile che non si riesca più a suonare brani che durino meno di 10 minuti? Il dilungarsi in lunghi assoli non fa che distrarre o, al meglio, stancare l’ascolto.

Cosa dire in conclusione? L’esecuzione di Bosso e degli altri musicisti è in linea con le aspettative, ma il lavoro generale suona più come una scelta commerciale che come un sincero tributo ad un grande musicista.

Ascolta Duke su Spotify!

Take that train! Parte #1

Il primo di due episodi in cui si viaggia a bordo di un treno, alla scoperta della musica di Duke Ellington!

Per ascoltare singolarmente i brani proposti in questa puntata:

  • Choo Choo (Duke Ellington/Bob Schaefer-Dave Ringle)
    Novembre 1924. New York.
    Blu-Disc 1002-B
    The Washingtonians: Bubber Miley, t; Charlie Irvis, tb; Otto Hardwick, as; Duke Ellington, p; George Francis, bj; Sonny Greer, d.
  • Recording Making with Duke Ellington
    Giugno 1937. New York
    Film “Record Making With Duke Ellington & His Orchestra (Paramount Pictorial No. 889)” registrato presso Master Records Studio.
    Duke Ellington & His Orchestra: Rex Stewart, c; Arthur Whetsel, Cootie Williams, t; Lawrence Brown, Joe Nanton, tb; Juan Tizol, vtb; Barney Bigard, cl, ts; Johnny Hodges, as, ss; Otto Hardwick, as, cl; Harry Carney, bs, cl, as: Duke Ellington, p; Fred Guy, g; Hayes Alvis, Billy Taylor, b; Sonny Greer, d.
  • Daybreak Express (Duke Elligton)
    4 dicembre 1933. Chicago.
    RCA-Victor recording session at the Merchandise Mart. Victor 24501
    Duke Ellington & His Orchestra: Louis Bacon, Freddy Jenkins, Arthur Whetsel, Cootie Williams, t; Lawrence Brown, Joe Nanton, tb; Barney Bigard, cl, ts; Johnny Hodges, as, ss; Otto Hardwick, as, cl, bsx; Harry Carney, bs, cl, as: Duke Ellington, p; Fred Guy, g; Wellman Braud, b; Sonny Greer, d.
  • Lightnin’ (Duke Ellington)
    21 settembre 1932. New York.
    ARC recording session. Brunswick 6404
    Duke Ellington & His Famous Orchestra: Freddy Jenkins, Arthur Whetsel, Cootie Williams, t; Lawrence Brown, Joe Nanton, tb; Juan Tizol, vtb; Barney Bigard, cl, ts; Johnny Hodges, as, ss; Otto Hardwick, as, cl, bsx; Harry Carney, bs, cl, as; Duke Ellington, p; Fred Guy, bj, g; Wellman Braud, b; Sonny Greer, d.
  • Take the ‘A’ Train (Billy Strayhorn)
    8 ottobre 1942. Los Angeles.
    Columbia recording session at Columbia Studios for the film “Reveille With Beverley”
    Duke Ellington & His Orchestra: Rex Stewart, c; Shorty Baker, Wallace Jones, t; Ray Nance, t, vn; Lawrence Brown, Joe Nanton, tb; Juan Tizol, vtb; Chauncy Haughton, cl, ts; Johnny Hodges, as; Otto Hardwick, as, cl; Ben Webster, ts; Harry Carney, bs, cl, as; Duke Ellington, p; Fred Guy, g; Junior Raglin, b; Sonny Greer, d.
  • Happy-Go-Lucky Local (Duke Ellington)
    7 gennaio 1947. New York.
    Capitol Radio Transcriptions recording session at Pathe Studios.
    Duke Ellington & His Orchestra: Cat Anderson, Shelton Hemphill, Wallace Jones, Taft Jordan, Ray Nance, Francis Williams, t; Lawrence Brown, Wilbur DeParis, tb; Claude Jones, vtb; Jimmy Hamilton, cl, ts; Johnny Hodges, as; Russell Procope, as, cl; Al Sears, ts; Harry Carney, bs; Duke Ellington, p; Fred Guy, g; Oscar Pettiford, b; Sonny Greer, d.
  • Night Train (Oscar Washington, Lewis P. Simpkins, Jimmy Forrest)
    27 novembre 1951. Chicago.
    Jimmy Forest and all star combo: Jimmy Forrest, ts; Bunny Parker, p; Johnny Mixon, b; Oscar Oldham, d; Percy James, congas, bongos

Stefon Harris: African Tarantella – Dances with Duke

Stefon Harris

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Stefon Harris si presenta come uno dei più interessanti e dotati vibrafonisti della scena jazz degli ultimi decenni. Dotato di una tecnica sopraffina, ma anche di un talento naturale, Harris si contraddistingue soprattutto per il buon gusto e la ricercatezza della sua musica, dimostrando di conoscere la tradizione e la storia. A riprova di ciò, l’album che andiamo oggi a recensire mostra tutta la devozione di questo musicista per Duke Ellington, senza cadere nella facile (e con ogni probabilità disastrosa) tentazione di riproporre musica che ricalcasse pedissequamente le sonorità e gli arrangiamenti originali.

La ricchezza di idee e di sonorità la si avverte già dal primo ascolto dell’album in questione, uscito nel 2006. African Tarantella – Dances with Duke, sotto l’egida della storica etichetta discografica Blue Note, è accattivante già dalla copertina del disco: il capo chino di Stefon Harris è sormontato da una tarantola che in qualche modo ne giustifica il titolo; nel retro copertina abbiamo l’artista di spalle che con una mano aperta tiene la tarantola e nell’altra una bacchetta da direttore d’orchestra. Oltre al ruolo di musicista-solista, Harris lo si nota, infatti, anche come arrangiatore e orchestratore di questo lavoro discografico. La sua orchestrazione può contare su di una formazione di ben nove musicisti piuttosto interessante che ne garantisce una ricchezza di timbri non indifferente: oltre all’autore al vibrafono e alla marimba, abbiamo una solida sezione ritmica piano-basso-batteria che sostiene con energia un eterogeneo quintetto composto da un veterano come Steve Turre al trombone, Anne Drummond al flauto, Greg Tardy al clarinetto, Junah Chung alla viola e Louise Dubin al violoncello.

Duke Ellington, dicevamo. È a lui che è dedicata più della metà di questo album. Le prime cinque tracce, infatti, sono una selezione di due delle più belle suite ellingtoniane: la New Orleans Suite del 1970 e la The Queen’s Suite del 1959.

Il disco apre con una sontuosa Thanks for the Beautiful Land on the Delta in cui si nota subito la bellezza di un arrangiamento mai scontato, che tiene conto delle armonie originali, rinfrescate da un incastro ritmico e da impasti timbrici che ne mantengono viva l’ariosità del brano, fino a cedere la scena a Stefon Harris che si avventura in un assolo importante sostenuto dalla ritmica articolata ma mai pesante, soprattutto nella persona di Terreon Gully alla batteria. Segue l’assolo di clarinetto sostenuto da un sottile background degli archi in pizzicato. La ripresa del tema è di nuovo affidata al vibrafono, con un pieno orchestrale che non fa rimpiangere la tavolozza timbrico-armonica di un’orchestra.

Se il primo brano, nell’idea di Ellington, era un tributo a quel delta del Mississippi che diede i natali a quella musica di cui divenne uno dei maggiori protagonisti, il secondo è invece il ritratto di uno dei più influenti contrabbassisti della musica di New Orleans, che fu in forza all’orchestra di Ellington fino alla metà degli anni ’30. Il Portrait of Wellman Braud di Harris ricalca abbastanza l’originale ellingtoniano, con l’ostinato di pianoforte e contrabbasso che crea movimento e tensione. Ma è Steve Turre il vero protagonista del brano, che con il suo trombone mette in luce la sua abilità nell’uso della sordina plunger nella migliore tradizione dei trombonisti ellingtoniani. Il suo gusto e la sua presenza quasi mettono in secondo piano il pur bell’assolo di Harris che segue.

L’ultima selezione della New Orleans Suite è forse il brano più evocativo e rilassato dell’album. Bourbon Street Jingling Jollies è accarezzata dal timbro caldo del vibrafono e dal suono vellutato del flauto (come nell’originale ellingtoniano, del resto), accompagnati da un leggerissimo e felpato accompagnamento della batteria.

È dallo stesso mood che inizia il brano successivo, questa volta estrapolato dalla Queen’s Suite. Sunset and the Mocking Bird comincia con un’atmosfera rarefatta che poco a poco si apre e riempie. L’arrangiamento è dei più riusciti di tutto l’album, giusto compromesso tra reinvenzione (come nel ritmo che quasi diventa funk) e fedeltà al già denso arrangiamento originale.

The Single Petal of a Rose è sicuramente uno dei brani in assoluto più profondi e meditativi di Duke Ellington. L’autore lo suonava nei momenti più intimi, al piano solo, con giusto il sostegno delle note lunghe del contrabbasso con l’archetto. Il brano è di una tale bellezza nella sua semplicità, che Stefon Harris ha sapientemente mantenuto la sobrietà della melodia. Là dove c’era il pianoforte ora c’è il vibrafono e l’arco del contrabbasso rimane di supporto con i lunghi suoni sui quali poggia la melodia. Se non si conoscesse l’originale si penserebbe che il brano sia stato concepito per il vibrafono!

Le tracce che seguono sono invece brani originali di Stefon Harris e sono una selezione dalla sua suite The Gardner Meditations, commissionata dal Wharton Center for Perfoming Arts. Al primo, soffuso brano intitolato Memories of a Frozen Summer, fa da contrasto l’energico African Tarantella, che dà il nome all’album. Brano elaborato e ricercato, ricorda a tratti le sonorità che Maria Schneider sa esprimere con la sua orchestra, con la differenza che qui i musicisti coninvolti sono in numero minore. Nel Dancing Enigma che segue, si può godere di tutto il potenziale di Harris, sia come musicista che come compositore-orchestratore.

A chiosa di questo lavoro discografico, vi è una Untitle Track non elencata nel retro copertina, che funge da piacevole conclusione di un ascolto mai annoiato.

I commenti positivi espressi poc’anzi trovano riscontro in due citazioni che si possono leggere all’interno del booklet di questo CD. La prima è di Pablo Picasso:
“Per me non esiste passato o futuro nell’arte. Se un’opera d’arte non riesce a vivere sempre nel presente, non deve essere considerata tale”
La seconda è di Duke Ellington:
“Non è sulla generazione od altro. Il problema nell’arte è la rigenerazione”

Rimane il dubbio della scelta di inserire estratti di un suo lavoro compositivo all’interno di un progetto discografico prevalentemente dedicato alla musica di Duke Ellington. Si ha l’impressione di ascoltare infatti due album differenti, entrambi godibili e ben fatti, ma, appunto, diversi. Avrebbe giovato all’organicità dell’album mantenere lo stesso impianto…

Il giudizio finale non può che essere positivo e si consiglia vivamente l’acquisto dell’album. Sarà un ascolto appagante per gli amanti del jazz e sicuramente una piacevole scoperta per gli appassionati di Duke Ellington!

Ascoltalo su Spotify!

Moon maiden!

Moon Maiden

Inauguriamo il blog con la prima puntata audio-visiva su Duke Ellington. In questo episodio indagheremo il rapporto tra la musica di Ellington e la luna, partendo da una trasmissione televisiva del 1969 sullo sbarco dell’uomo sulla luna, per concludere scoprendo una composizione scritta da Ellington per l’occasione, dal testo molto intrigante.
Ma basta chiacchiere, eccovi il video della puntata!

Alcuni scatti presi durante la registrazione della trasmissione televisiva della ABC (le riprese in studio furono fatte il 14 luglio 1969, mentre la trasmissione andò in onda il 20 luglio):

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La didascalia a queste foto pubblicate su di un giornale recita:
New York, 14 luglio – DUKE CANTA UN BRANO LUNARE – Il versatile musicista Duke Ellington ha composto una unova canzone, “Moon Maiden”, per segnare la ripresa sulla luna dell’Apollo 11 e, a sinistra, lo si vede mentre prova davanti a un modello del moduilo di comando dell’Apollo 11. A destra, porta il suo nuovo pezzo davanti a un modello del modulo lunare. La canzone, che verrà trasmessa domenica mentre gli astronauti si staranno per appoggiare sulla luna, segnerà il debutto di Ellington come cantante. Tuttavia, è solamente un evento d’eccezione.
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Duke Ellington con il cantante Tony Watkins (con la camicia a righe)
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Da sn a ds: Paul Kondziela, Duke Ellington, Al Chernet (coperto dal pianoforte) e Rufus Jones

Di seguito, invece, per chi volesse ascoltarli separatamente, i brani proposti in questa puntata:

Moon Mist


Moon Over Cuba

Moonstone

Spacemen

Moon Maiden